Nei miei scorsi articoli sulla concezione dell’economia che aveva Avvenire ammetto di non aver chiarito a sufficienza una questione importante: non considero (parlando personalmente) economia e politica divise, e questo si era già detto. Il perché però è sfuggito al discorso. Per chiarire ulteriormente la questione dunque, dividere il cosiddetto capello in quattro, dovrò spendere più tempo sulla questione. Senza dilungarci a citare tutte le fonti il succo della mia personalissima visione è questo:
- Gli agenti politici e/o culturali creano e modificano l’aspetto economico attivamente e passivamente. Questa è più o meno una conoscenza comune, che non dovrebbe aver bisogno di ulteriori spiegazioni.
- Gli agenti economici creano e modificano l’aspetto culturale e/o politico e sono portatori (in vari modi) di visioni culturali e/o politiche. Questa visione, sia pure ristretta al campo degli studi marxiani e storici merita qualche parola in più: gli agenti economici e gli agenti politici sono materialmente gli stessi: sia l’operaio che il capofabbrica che il proprietario sono agenti politici, e fin qui niente che non si potesse intuire dall’economia classica; ma allo stesso tempo il loro lavoro crea aspetti politici: nel caso delle fasce basse l’associazionismo e la politica e la cultura di massa (vd. la nascita degli sport proletari come il calcio in Inghilterra), nel caso delle fasce alte tradizioni inventate, il corporativismo e l’ideologia del laissez faire variamente declinata, il protezionismo o il keynesismo sulla scorta “siamo tutti sulla stessa barca, il sistema va solo riformato” in caso di crisi, in alternativa all’assolutismo. E ciò senza dimenticare l’elefante nell’armadio: ogni attività economica influisce sull’aspetto materiale e quindi anche culturale del gruppo umano ad esso relativo: così una città sotto il giogo di Wal-Mart o del consesso Coop-Eataly-Slow Food, per non parlare di intere regioni del Pianeta, sarà diversa dalla situazione che l’ha preceduta. E da questa differenza si formeranno volenti o nolenti nuovi organi e assetti politici: a che ti serve il sindacato contadino – e quindi alla lunga la politica democratica di massa – quando, come nell’America appena nata, hai in sostanza tutti liberi proprietari? A che ti serve il treno – e quindi le fabbriche e quindi le città – quando commerci solo con i vicini per pura sussistenza?
Ora ammesso e non concesso che queste siano solo congetture di un 21enne un po’ eccentrico che legge troppo Marx, Gramsci e Jesi – il che potrebbe pure essere – compiamo anche solo per gioco lo sforzo di prenderle sul serio queste ipotesi e gettiamoci sull’ennesimo articolo di Luigino Bruni, povero diavolo, edito da Avvenire.
Anzitutto notiamo come queste considerazioni che possiamo considerare basilari vengano distorte, in secondo luogo noteremo un generale appiattimento di queste posizioni a stereotipi ed infine la loro totale negazione. In sintesi:
- No mio caro lettore: gli agenti politici sono economici MA solo come aspetti NON economici(?!) e…
- Gli agenti economici sono politici MA solo come aspetti NON politici(?!)
O in sintesi:
- L’economia non è politica ed, in sostanza, quella che abbiamo è l’unica possibile(?)
Per evitare di incappare involontariamente in possibili straw man, passiamo all’articolo in questione:
Notiamo anzitutto un uso stereotipato – e francamente reazionario e qualunquista – del concetto marxiano di sussunzione:
La cultura delle grandi imprese sta occupando il nostro tempo. Le categorie, il linguaggio, i valori e le virtù delle multinazionali stanno creando e offrendo una grammatica universale adatta a descrivere e produrre tutte le storie individuali e collettive “vincenti”.
Nessun accenno al Tatcherismo-Blairismo, al Reaganismo o al Berlusconismo in tempi recenti ovviamente. Né tantomeno alla situazione euro-americana nei primi decenni successivi al 1848, a poco dalla cosiddetta (un po’ per retrospezione rosea un po’ per ignoranza) Belle Époque. Vuoto assoluto.
Così, nel giro di pochi decenni la grande impresa da luogo principe dello sfruttamento e dell’alienazione è divenuta icona dell’eccellenza e della fioritura umana.
Suona strano detto da chi ha scomunicato proprio chi sosteneva l’esistenza dello sfruttamento, fuori o dentro le navate. Inoltre, e qui mi rifaccio ad un testo relativamente recente, l’alienazione è anche il fatto che si dichiari lo sfruttamento eccellenza e fioritura umana. Le cose sono contemporanee. Non si può certo essere re senza commettere crimini.
In un tempo come il nostro, quando le passioni collettive sopravvissute dal Novecento sono quelle tristi della paura e dell’insicurezza e dove regnano sempre più incontrastate le passioni dell’individuo
Ancora: il post-’48 non è mai esistito. Un’illusione a quanto pare.
la cultura prodotta e veicolata dalle imprese globali è lo strumento perfetto per incarnare e potenziare lo spirito del tempo. Niente, infatti, come l’azienda capitalistica è capace oggi di esaltare e potenziare i valori dell’individuo e le sue passioni.
Se credi alle illusioni pubblicitarie o contrattuali in stile Apple/Expo…
Ecco allora che le parole del “business” e le sue virtù stanno diventando le buone parole e le virtù dell’intera vita sociale: nella politica, nella sanità, nella scuola.
“Ecco”? Certo: ecco, se vieni dal 1850 o giù di lì…
Merito, efficienza, competizione, leadership, innovazione, sono ormai le uniche parole buone di tutta la vita in comune.
Perché le alternative non esistono o sono irrilevanti (o vengono prontamente dichiarate tali come “comunisti”, “nostalgici degli anni ’70” o “sinistra improbabile” ed altri genocidi intellettuali simili) o sono asserviti. Per essere un consolatore della buona borghesia avrebbe bisogno di essere consolato.
In mancanza di altri luoghi forti capaci di produrre altra cultura e altri valori, le virtù delle imprese si presentano come le sole da riconoscere e coltivare fin da bambini.
Q.E.D.
Le imprese fanno spesso cose buone (sfruttamento e alienazione? Parole al vento a quanto pare), ma non possono né devono generare tutti i valori sociali né l’intero bene comune.
Non mi dilungherò di nuovo su questa palese presa in giro che è l’uso attuale dell’idea (-ologia) del bene comune. Mi limiterò a constatare come questo cozzi apertamente con gli impliciti di poco più sotto, oltre che all’idea mainstream del liberismo, qui sostenuta, ampiamente debitrice ad Adam Smith, che sosteneva l’esatto opposto.
Per vivere bene c’è bisogno di creazione di valore diverso dal valore economico, perché esistono valori che non sono quelli delle imprese e il bene comune è eccedente rispetto al bene comune generato dalla sfera economica.
Una frase che presa letteralmente non ha né capo né coda, anzitutto perché non specifica il focus dell’argomento, in seconda battuta perché è un’affermazione lapidaria ma non autoevidente. Certo: un marxiano saprebbe costruire un’affermazione del genere (non negli stessi vuoti termini) con tanto di prove [vd. sopra] ma dubito che il buon Bruni sia mai entrato in quell’ottica. Non scriverebbe su Avvenire.
Tutto questo lo abbiamo sempre saputo, ma oggi lo stiamo dimenticando.
Oggi quando? Sempre quando?
La gestione della crisi greca ed europea delle settimane passate, e delle prossime, ne è eloquente segnale. Ma anche ciò che sta accadendo negli ambiti della cura, della scuola, nel mondo del volontariato, nell’economia sociale, e persino in alcuni movimenti cattolici e chiese, ci dice che le virtù economiche stanno progressivamente rimpiazzando tutte le altre
Potete anche chiedervi che razza di ambienti frenquenti. Dal canto del sottoscritto, lo sto facendo da quando ho letto il suo primo articolo.
L’elenco delle “virtù” è in ogni caso eloquente:
(la mitezza, la misericordia…)
Strano, perché a me pare che dall”800 al padronato il sottoposto mite sia sempre andato a genio.
virtù economiche stanno progressivamente rimpiazzando tutte le altre […], che vengono sostituite anche perché presentate dalla cultura aziendale globale come vizi.
Che logicamente non è una contrapposizione fatta e finita, dato che le une implicano le altre. D’altronde sappiamo anche solo dagli anni ’50 quale sia il comportamento borghese di fronte ai vizi.
Dobbiamo, poi, prendere atto che la “colpa” di questo impressionante riduzionismo non è solo, né forse principalmente, delle imprese, delle società di consulenza globali o delle business school che sono i principali vettori di questa mono-cultura (Sia mai!). C’è una grande responsabilità oggettiva della società civile che non riesce più a creare sufficienti luoghi extra-economici capaci di generare nei giovani e nelle persone virtù diverse da quelle economiche.
Che considerato nei termini di cui sopra è una contraddizione: sussumendo il capitale la vita extra-economica, per via coercitiva o meno, naturalmente quella non può più riprodursi se non in simbiosi con essa. A questo punto è come dare colpa alla gazzella vecchia di essere stata azzannata.
La scuola, ad esempio, dovrebbe essere insieme alla famiglia il principale contrappeso della cultura aziendalista, perché è proprio della scuola insegnare ai bambini e ai giovani soprattutto le virtù non utilitaristiche e non strumentali, che valgono anche se (o proprio perché) non hanno un prezzo.
Ironia della sorte: il suo schieramento si è appiattito proprio nella posizione cui anche i borghesi feticisticamente si aggrappano. Ora: non starò qui io a ricordare come la famiglia borghese ricca riproponga tra le mura familiari gli stessi rapporti politici (fin quando non è stato concesso il voto femminile la donna era un arredo o poco più) e di servitù con la propria manovalanza (colf, consulenti, inservienti… ) spacciandolo come luogo idilliaco: l’ha già sottolineato Hobsbawm. Che il Bruni se lo legga.
E invece stiamo assistendo in tutto il mondo a una occupazione della scuola da parte della logica e dei valori dell’impresa (merito, incentivi, competizione…), dove dirigenti, docenti e studenti vengono valutati e formati ai valori delle imprese.
Se era un tentativo di nascondere l’evidente apprezzamento della gerarchia cattolica alla contro-riforma renziana, non ci sta riuscendo. Ed è anche in ritardo di almeno 30 anni.
E così applichiamo l’efficienza, gli incentivi e il merito anche nell’educazione dei nostri figli e nella gestione delle nostre amicizie (basta frequentare i Paesi nordici dove questo processo è più avanzato, e vedere come si stanno trasformando in questo senso anche vita comunitaria, relazionale e amicizia).
????? Chiamasi arrivismo, non è cosa nuova.
Il deficit antropologico(?) che oggi si sperimenta nella vita economica e civile non si colmerà occupando con le “nuove” virtù economiche il vuoto lasciato dalle “antiche” virtù non-economiche, ma generando e rigenerando antiche e nuove virtù eccedenti l’ambito economico e aziendale, che consentiranno la fioritura integrale delle persone, dentro e fuori il mondo del lavoro.
E meno male che l’articolo partiva dal presupposto di dividere i due ambiti, nel senso di lasciare il non economico a se stante. Qui si sta sostenendo senza mezzi termini di asservirlo per vantaggi economici! (O forse sono io che do troppa importanza alle chiusure)
L’economia ha sempre avuto bisogno di virtù, cioè di eccellenza (areté).
Ok, allora non è stata una svista: una contraddizione in termini bell’e buona!
Fino a pochi decenni fa, però, le fabbriche e i luoghi di lavoro utilizzavano patrimoni di virtù e di valori che si formavano al fuori di esse, nella società civile, nella politica, nelle chiese, negli oratori, nelle cooperative, nei sindacati, nelle botteghe, nei mari, nei campi, nella scuola e soprattutto nelle famiglie.
Che non è assolutamente un asservimento. Certo.
Era in questi luoghi non economici, retti da princìpi e da leggi diverse da quelli delle imprese e del mercato, che si formavano e riformavano il carattere e le virtù delle persone, che dentro le imprese trasformavano i loro capitali personali in risorse produttive, imprenditoriali, manageriali e lavorative.
Di nuovo: dove sono finiti sfruttamento ed alienazione?
Senza dimenticare quell’immenso patrimonio rappresentato dalle donne – mamme, figlie, mogli, sorelle, suore, zie, nonne – che dentro le case formavano, amavano, accudivano, generavano e rigeneravano ogni giorno ragazzi e uomini, che quando varcavano i cancelli dei luoghi di lavoro portavano con loro figure femminili invisibili ma realissime, che offrivano e donavano alle imprese servizi di altissimo valore, anche economico, a costo aziendale zero.
Sic! C.V.D.
In due-tre decenni stiamo esaurendo questo stock secolare di patrimoni etici, spirituali, civili, senza essere ancora capaci di generarne di nuovi. E così nelle imprese arrivano in genere persone con patrimoni morali scarsi, fragili e poco munite di quelle virtù essenziali nella vita lavorativa, nel lavoro di gruppo, e soprattutto nella gestione dei rapporti umani, delle crisi e dei conflitti.
Perché, e qui mi ripeterò fino allo sfinimento, per i prelati un’attività economica può anche essere infima, sfruttatrice, disumana, ma se è gestita moral(istica)mente, meglio ancora sotto l’egida religiosa, è tutto a posto.
Opus Dei, CL e le Coop ne sanno qualcosa.
Le imprese allora per continuare a produrre ricchezza e profitti (nessun riferimento al beneficiario mi raccomando), si sono attrezzate per creare esse stesse quei valori e quelle virtù di cui hanno un vitale bisogno.
Le tradizioni inventate non sono certo di oggi. Il brand sì, ma risale almeno ai primi del ‘900.
Quasi nessuna di queste virtù e di questi valori sono inediti, perché non sono altro che la rielaborazione e il riadattamento di antiche pratiche, strumenti e princìpi riorientati – e qui sta il punto chiave – agli scopi dell’impresa post-moderna (che strictu sensu non vuol dire nulla).
Come castrare, rendere artificialmente nuovo, proprio, e soprattutto cattolicamente innocuo e reazionario un concetto rivoluzionario espresso nella (e dalla) seconda metà dell’Ottocento.
Ieri, oggi, sempre, ci sono virtù essenziali alla buona formazione del carattere delle persone, che vengono prima delle virtù economiche e di quelle dell’impresa. La mitezza, la lealtà, l’umiltà, la misericordia, la generosità, l’ospitalità, sono virtù pre-economiche, che quando sono presenti consentono anche alle virtù economiche di funzionare.
Poco importa che nella realtà degli umani siano cose più spesso si declamano e ancor meno spesso si attuano. Sottolineo nuovamente la scelta ad dir poco oscurantista delle buona pratiche. Così come il reiterarsi dell’affermare e dello smentirsi continuo.
Si può vivere anche senza essere efficienti e particolarmente competitivi, ma si vive molto male, e spesso si muore, senza generosità, senza speranza, senza mansuetudine.
Che suona come una sinistra minaccia a tutti i “gufi” non mansueti, indifferenti alle promesse e di certo poco generosi coi propri superiori. Ma forse penso male io.
In un mondo occupato dalle sole virtù economiche, come rispondiamo alle domande: “che ne facciamo degli immeritevoli?”, “che fine fanno i non-eccellenti?”, “dove mettiamo i non-smart?”. Non tutti siamo meritevoli allo stesso modo, non tutti siamo talentuosi, non tutti siamo capaci di “vincere” nella competizione della vita.
Che poi sarebbero la maggioranza della popolazione terrestre, qui compresa quella che viene definita falsamente la classe media. Ma questo non lo diciamo per non instillare sindromi d’assedio nei nostri lettori e nel loro roseo mondo.
Il mercato e l’economia hanno le loro risposte a queste domande. Nei mercati chi non è competitivo esce, nelle aziende di successo “chi non cresce è fuori dal gruppo”. Ma se la sfera economica diventa l’intera vita sociale, verso dove “escono” i perdenti delle competizioni, quale “fuori” accoglie chi non cresce o cresce diversamente e in modi che non contano per gli indicatori delle performance aziendali?
Basterebbe leggersi i primi due libri del Das kapital per averne un’idea, come altresì le note gramsciane sul fordismo e gli alti salari. Ma chi te lo lascia fare in un giornale cattolico?
L’unico scenario possibile diventa così l’edificazione di una “società dello scarto”.
Così come l’unica conclusione poteva essere l’edificazione di un luogo comune dalle tinte reazionarie per sopperire alla propria (voluta?) ignoranza.
Certo, restiamo persone degne anche quando siamo o diventiamo immeritevoli, inefficienti, non competitivi. Ma questa dignità diversa la nuova cultura dell’impresa non la conosce.
Rileggete questo periodo e confrontatelo con le tesi di cui sopra. Non notate anche voi un maldestro tentativo di consolazione?
Le virtù economiche e manageriali nei lavoratori hanno bisogno di altre virtù che le imprese non sono capaci di generare.
Anche se poco fa aveva detto pressappoco il contrario.
Le virtù economiche sono autentiche virtù se e quando accompagnate e precedute dalle virtù che hanno nella gratuità il loro principio attivo.
(vd. la nota sul moralismo in economia)
È qui che il grande progetto della cultura aziendale di crearsi da sola le virtù di cui ha bisogno per raggiungere i propri obiettivi incontra un limite invalicabile: le virtù, tutte le virtù, per crearsi e fiorire hanno un vitale bisogno di libertà e di eccedenza rispetto agli obiettivi posti dalla direzione dell’impresa. Non saremo mai lavoratori eccellenti se smarriamo il valore intrinseco delle cose, se non ci liberiamo dalla servitù degli incentivi.
Perché, e qui il lato borghese ha evidentemente protestato fino a prendere il sopravvento, l’uomo di successo è sempre parco e contenuto. Poi, poco importa se in realtà è una morale di comodo per tenere i sottoposti nelle loro misere condizioni.
“Non saremo mai lavoratori eccellenti se smarriamo il valore intrinseco delle cose, se non ci liberiamo dalla servitù degli incentivi”: capito facchini della Coop e di Eataly, smettetela di chiedere il pane per sopravvivere, siate parchi!
Le virtù economiche delle imprese non si trasformano in vizi se si lasciano, umilmente, affiancare da altre virtù che le ammansiscono e umanizzano.
Sic!
Solo imparando a sprecare, inefficientemente, tempo con i miei dipendenti posso sperare di diventare un manager veramente efficiente. Solo riconoscendo umilmente che i talenti più preziosi che possiedo non sono frutti del mio merito ma tutto dono (haris) posso riconoscere i veri meriti miei e degli altri.
Perché? Giustamente non lo sapremo mai.
Le imprese non possono costruire il buon carattere dei lavoratori, perché se lo fanno non generano persone libere e felici come dicono e forse vogliono(???!!!!), ma solo tristi strumenti di produzione.
E qui il direttore deve avergli sussurrato nell’orecchio: “Pssst! Dì qualcos’altro di buoni sentimenti senza citare le fonti altrimenti questi qui non ci cascano!”.
Le imprese possono solo accogliere, rafforzare, non distruggere le nostre virtù. Non possono fabbricarle.
E fu così che le premesse saltarono in aria in un tripudio di nonsense e retorica da imbonitori.
Come con gli alberi. Come con la vita. È questa una delle leggi più splendide della terra: le virtù fioriscono se sono più grandi e più libere dei nostri obiettivi, anche di quelli più nobili e grandi.
[Questa chicca vi è stata gentilmente offerta dai Baci Perugina.]
Qui a Vallombrosa, dove sto scrivendo queste righe, alcuni mesi fa una tempesta ha abbattuto circa ventimila alberi. Mentre si lavora per la rimozione dei tronchi caduti, coltivati nei secoli da monaci virtuosi, la Forestale sta iniziando a piantare nuovi alberi, di molte specie diverse, per cercare di salvare la biodiversità del bosco che rinascerà.
Quando le foreste cadono qualcuno deve iniziare a piantare alberi. L’albero dell’economia crescerà bene se sarà affiancato da tutti gli altri alberi della foresta.
E ancora l’alienante accostamento economia-natura. Non si smentisce mai la buonanima.
Giuro, non ho letto un’articolo che castrasse e storpiasse così malamente i concetti marxiani! A parte forse l’editoriale di Becchetti, che tenta di far passare come una manna dal cielo gli interventi governativi come niente fosse, storpiando il concetto di esercito di lavoro di riserva in lavoratori a un dollaro al giorno. Tali sono gli effetti quando si rifiuta di far conoscere le ragioni della controparte: che alla fine non li conosce nemmeno chi vorrebbe osteggiarle.