Frankenstein Junior

Torturata dalla parola Natura che qualcuno usa come proprietà privata del proprio Dio per stabilire i confini del mitico territorio del bene e del male, mi sono riletta Frankenstein. Il moderno Prometeo.

Quando il dottor Frankenstein dette vita alla sua creatura con una rozza operazione di tagliocucito e qualche scarica elettrica, il “bambino” che ne nacque si rivelò, al contrario, tutt’altro che rozzo. 

Il Figlio che il padre rinnega senza dargli nemmeno un nome, giorno dopo giorno da autodidatta, impara a parlare, a leggere e a scrivere. Il Figlio Artificiale, messo insieme con pezzi eterologi,  rivela nei suoi pensieri una capacità non comune di autocoscienza e sa leggere nel caos doloroso dell’animo umano. Il Figlio contro Natura sente su di sé tutta la ferocia dell’esistere, l’umiliazione dell’abbandono, la lama della solitudine, la ferita sanguinante dell’amore negato.

Il personaggio partorito dalla fantasia di una diciottenne, già madre di un neonato morto quasi subito e incinta del terzo figlio, ci mette davanti alla questione, attuale molto più oggi che nel 1818, di quanto sia lecito desiderare di aver un figlio e giusto ottenerlo con qualsiasi mezzo la scienza lo renda possibile. Ma ancora di più ci costringe a decidere da quale parte stare: se solidarizzare con il dolore di un creatore pentito, o da quella della sua creatura, per quanto terribile e vendicativa.

E’ Mary a dirci da che parte stare spostando la nostra compassione, paragrafo per paragrafo e riga dopo riga, dall’uno verso l’altro. Perché molto peggiore, molto più condivisibile e molto più “naturale” è la sofferenza del figlio abbandonato che quella di un padre annichilito dalla morale comune, incapace di emanciparsi da un’educazione religiosa castrante e torturato da una distorta idea di Natura.

PS: anche se me l’hanno spoilerata, non ho mai letto la terribile fine del libro…

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