TTIP, chi lo conosce? Chi sa a che serve? Ammettiamolo: il Transatlantic Trade and Investment Partnership non è per niente conosciuto. Se non altro perché una buona sezione di esso non è pubblico, come invece ci si aspetterebbe da un qualsiasi trattato internazionale.
E se già questo desta sospetti, quelle poche cose che si sanno (in pratica una continuazione non violenta del neoliberismo-deregulation in salsa Bush) è bastato ad incontrato lo sfavore di entrambe le fazioni dell’Europarlamento, laddove la sua versione del Pacifico è stata oggetto di attacchi da parte di Wikileaks tanto da porci sopra una taglia. Ma perché tanta contrarietà? Forse perché ad eccezione degli ultimi eventi, nessuno di questi trattati è stato oggetto di un iter democratico – ovviamente, non essendo di fatto pubblici.
Sarà anche per questo perché a pochi giorni dall’affossamento del partenariato Avvenire ha tirato fuori un presunto allievo di Don Milano (strano: il filo-ciellino Renzi, vicino alle alte cariche, non aveva detto di accantonarlo?). Eppure fino a poco fa non erano di questo avviso.
Ma prima di entrare nel merito della questione facciamo le dovute premesse: questo articolo nasce per caso, cercando per puro errore in un momento di fiacca sulla barra di ricerca del browser le parole “avvenire” “radiovaticana” e “TTIP”. Come ovvia conseguenza, questo scritto è incentrato soprattutto sulle opinioni recenti di queste testate sull’argomento. Non è perciò in sé esauriente, e si invitano i lettori a compiere, nel caso fossero interessati, ulteriori ricerche autonome.
Ma passiamo direttamente alle fonti: per semplicità ve ne farò un elenco qui di seguito onde renderne più fruibile la consultazione:
- RV: Vescovi Comece: “Chiesa, voce dei poveri”
- Av: Ue-Usa, il difficile patto sul libero scambio
- AV: Calenda: “trattativa ferma, ma ci perdiamo noi” (fin qui, sono tutti datati al 2014)
- Av: Basta slealtà, no autogol (questo datato al 2013 è la fonte più vecchia)
Come già sottolineato nell’elenco, è curioso notare come per un anno da queste testate l’argomento TTIP sia stato accantonato. Forse per via delle polemiche che si sono accumulate andando avanti.
La prima fonte mostra come i vescovi europei non se ne siano stati con le mani in mano, ma abbiano già adocchiato i vantaggi del partenariato. I loro ovviamente:
Un trattato che “solleva una serie di problemi e di controversie” e la Chiesa “deve far sentire la voce dei più deboli e dei più poveri in Europa e nel mondo, nella misura in cui saranno interessati dall‘accordo sul libero scambio”. Lo scrivono i vescovi europei della Comece (la Commissione degli episcopati della Comunità Europea) che hanno deciso di dedicare la loro Assemblea plenaria autunnale alla analisi del Partenariato transatlantico su commercio ed investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership, Ttip) che è attualmente in corso di negoziato tra gli Stati Uniti e l‘Unione Europea.
Che è come dire che, pensando male, nel caso la cosa non presenti i vantaggi sperati la Chiesa Cattolica avrebbe tutto da guadagnarci rigiocandosi la carta medievale di welfare per procura.
La Commissione continua la sua analisi presentandosi in maniera distaccata:
Dopo un esame del testo a 360 gradi, la Comece ha stimato che “al di là delle questioni strettamente commerciali che solleva, il Ttip interroga la nostra identità europea e come tale identità possa affermarsi e profilarsi nel mondo (sembra di sentire i bisbigli di una sorta di neocolonalismo, ma forse sono io che penso sempre male)“.
“In sostanza, il Ttip – affermano i vescovi Ue – ha un effetto specchio sull‘Unione europea e obbliga gli europei a definire in più chiaramente la propria posizione sulla scena mondiale e ad adottare una strategia commerciale e una politica monetaria sostenibile in vista dei prossimi decenni che si annunciano a crescita debole o zero”.
Un commento che, forse per sfilarsi dalle polemiche, è assolutamente asettico: questa analisi, se di analisi si può parlare, si può fare su qualsiasi congiuntura economica sfavorevole a prescindere di trattati commerciali si sorta. Tant’è che verrebbe da giudicarla un silenzio-assenso di un parecchio imbarazzato (o frustrato per non essere stati chiamati in causa in prima persona).
Altro indizio curioso è il fatto che tra Avvenire abbondino strenui difensori dall’Accordo. Un apologo lo troviamo in un editoriale di Pietro Saccò, che rassicura come tale partenariato non comporterà alcuna deregolamentazione e comunque sarà tutto protetto a norma di legge:
Il partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip) è un accordo commerciale, attualmente in corso di negoziato, tra Unione Europea e Stati Uniti. L’obiettivo è rimuovere le barriere commerciali in una vasta gamma di settori economici per facilitare l’acquisto e la vendita di beni e servizi tra Europa e Stati Uniti.
Descrizione didascalica classica, semplificata. Ma è proprio nelle semplificazioni che si nasconde il nocciolo della questione: quali sono queste barriere commerciali che ostacolerebbero il libero commercio? Chi si adatterà a chi?
Oltre a ridurre le tariffe in tutti i settori, l’Unione Europea e gli Usa vogliono affrontare il problema delle barriere doganali – come le differenze nei regolamenti tecnici, le norme e le procedure di omologazione.
Ripetiamo: in quale direzione si rimuoveranno queste barriere? Dalla parte europea, che dalla Seconda Guerra Mondiale ha acquisito in anni di lotte una maggiore tutela dei consumatori, o quella americana, dove sono bastati un paio di presidenti conservatori per eliminare di fatto l’Antitrust e svendere scuola e sanità?
Spesso questi rappresentano un aggravio inutile in termini di tempo e denaro per le società che vogliono vendere i loro prodotti su entrambi i mercati.
Notare come nella narrazione il compratore sia magicamente svanito. Il lavoratore, parimenti, si è eclissato senza lasciare tracce.
Per esempio, quando un’automobile è omologata in Europa, ha bisogno di un’ulteriore procedura di approvazione negli Stati Uniti, nonostante le norme sulla sicurezza siano simili.
Deregulation. Non era quello che si voleva confutare?
A Bruxelles non sanno più come dirlo: il pollo lavato con la varechina, i manzi ingrassati con gli ormoni e gli organismi geneticamente modificati sono esclusi dalla trattativa per il Ttip (il recente voto non pare abbia dimostrato questa versione dei fatti) […] Eppure l’argomento del “pericolo nel piatto” resta uno dei più forti e utilizzati dal NoTtip, il sempre più organizzato movimento internazionale che si oppone alla trattativa
Ed eccala’llà: abbiamo un nuovo spauracchio. Come se non bastasse, il nostro si disturba prontamente poi di citare la sola analisi del Financial Times, testata notoriamente distaccata sulle questioni economiche:
«I negoziatori sembrano essere dimenticati degli attivisti anti-globalizzazione (ma il papa non aveva detto… specchietto per le allodole). Questa minoranza rumorosa(!) sta riuscendo a convincere i consumatori che dovranno mangiare pollo al cloro e cibi ogm, e che gli verrano imposte le leggi americane sulla privacy» ha avvertito, dalle pagine del Financial Times, Pascal Lamy.
Notando che l’opinione viene presentata con troppa veemenza – sia mai che si pensi che lui approva quelle precise parole – l’articolista prende le distanza. Ma di poco: infatti come un renziano provetto sulla riforma della Scuola, butta la questione su un fatto di cattiva comunicazione. Come a dire che chi non approva, povero lui, non capisce. È stupido, ed ha bisogno di venire paternalmente educato.
Quella di Lamy, ex direttore dell’Organizzazione mondiale del commercio, è naturalmente una visione di parte. Non c’è bisogno di essere faziosi, però, per riconoscere che Bruxelles sta perdendo la sua battaglia di comunicazione con i NoTtip
Segue una sorta di Straw Man che si confonde un Ad Ridiculum:
l’immagine del trattato con gli Stati Uniti che sta arrivando alla popolazione europea è quella – spaventosa – disegnata da chi si oppone al negoziato.
Dopo una breve ricapitolazione dei recenti – per l’articolista – eventi, il nostro si mette ad elencare delle parti del trattato che, come la fantomatica Carta dell’Expo, risultano più delle dichiarazioni d’intenti. Generiche e affabulatorie. Ma tanto chi si andrà a controllare il pelo nell’uovo?
In diversi passaggi di questo documento, che è la base della posizione europea nella trattativa con gli Stati Uniti, il Consiglio europeo chiarisce che il negoziato non potrà portare nessuna delle due parti a ridurre il livello di protezione per i consumatori. Il concetto è introdotto al punto 8: «L’accordo dovrà riconoscere che le Parti non incoraggeranno il commercio o l’investimento diretto dall’estero abbassando gli standard e la legislazione per quanto riguarda l’ambiente, il lavoro, la salute e la sicurezza».
E continua:
l punto 25 specifica che un’eventuale armonizzazione delle regole con gli Stati Uniti «non dovrà pregiudicare il diritto di disegnare regole in conformità con i livelli di salute, sicurezza, protezione dei consumatori, dei lavoratori e dell’ambiente e diversità culturale che ogni parte riterrà appropriata». Allo stesso punto il mandato specifica che per quanto che riguarda le misure sanitarie o fitosanitarie (cioè agrofarmaci e pesticidi) ogni parte potrà «valutare e gestire il rischio in modo consono al livello di protezione che ritiene appropriato».
Viene, ovviamente, passato in sordina il tribunale delle aziende contro i governi. Una vera e propria spada di Damocle che riuscirebbe di fatto ad annullare questi pii desideri. D’altronde se in America Nestlé può riuscire a creare problemi ad uno Stato controllandone le risorse idriche non si possono escludere certo altri casi simili.
Il Ttip potrà avere anche mille difetti, ma di sicuro i negoziatori non porteranno sulle nostre tavole i manzi agli steroidi, il pollo al cloro o gli Ogm.
Rassicura infine l’editorialista.
Ma nel caso non ci avesse sufficientemente convinto queste parole, ci pensa l’intervista al vice-ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. Uno che per intenderci fino a poco fa era in quota Confindustria. Il che è tutto un dire.
Si dice che, col Ttip, il nostro Pil potrebbe salire di almeno lo 0,25%, si parla di nuovi posti di lavoro. Non sono eccessi di ottimismo?
Lo 0,25 è la stima più prudenziale. Ma al di là di questo, può essere un buon affare per ambo le parti. In America stiamo già crescendo molto come esportazioni, ma per l’Italia rimane un potenziale aggiuntivo di quasi 10 miliardi, pari al totale del nostro export verso la Russia.
Non serve essere un economista per capire che l’export è indice di se stesso e basta. Non dice niente su chi a che condizioni e con quali vantaggi o svantaggi ciò accadrebbe, allo stesso modo il Pil: persino i proudhoniani come Piketty sanno del vecchio adagio sulla statistica dei polli.
E sul fatto che del TTIP si parli poco e non in modo lusinghiero il viceministro afferma:
Non trova che in Italia il mondo politico stia parlando troppo poco del Ttip?
Sì, è così. Ed è un segnale di scarsa attenzione che, per un Paese dipendente in larga parte dalla crescita dell’export, è miope.
Come se la spiega?
È stato lasciato campo libero a una rappresentazione mitologica che si è nutrita di un anti-americanismo che è più forte di quel che si pensa (WTF!?).
E va avanti così:
Tutte le paure messe in circolo sono ingiustificate, però. Per questo, nell’ambito della presidenza italiana, ho deciso di puntare sulla trasparenza massima, chiedendo di desecretare il mandato negoziale, dove peraltro si chiarisce fino a che punto le paure siano ingiustificate
E così si punta a far credere che tutto il trattato sia stato reso pubblico. Tacendo sulla sua nascita.
i servizi pubblici, cultura, ogm, non saranno in alcun modo toccate dal negoziato. Così come chiederò di rendere pubblica una sintesi dei prossimi round.
Si badi: una sintesi. Capirei anche la praticità, ciò nonostante pare pure un po’ pochino per quello che viene contestato.
E gli Isds, questi arbitrati per risolvere le controversie fra investitori e Stati? Non rischiano di ledere il diritto nazionale in materie-chiave?
L’ultimo Consiglio Ue ha fatto emergere delle sensibilità molto diverse. Francia e Germania hanno un’avversione molto forte agli Isds, clausola che però è attiva in 1.400 accordi bilaterali della Ue e che viene esercitata spesso proprio dalle aziende europee. Occorre limitarne l’applicazione sostanzialmente ai soli casi di discriminazione e di mancato risarcimento in caso di esproprio.
Discriminazione. Ma non era proprio ciò cui le multinazionali si attaccavano per ottenere condizioni peggiori nelle zone economiche speciali in Asia, Africa e Sud America?
A torto, secondo lei?
Sugli Isds non possiamo cambiare il principio. Noi oggi stiamo negoziando anche con Cina e Vietnam, rispettivamente un accordo sugli investimenti e uno di libero scambio.
Lupus in fabula.
Come potremmo chiedere a loro, che hanno una fortissima presenza dello stato nell’economia e dove il rischio di discriminazione è elevato, di inserire questa clausola nel trattato dopo averla esclusa da quello con gli USA?
Riassumendo: se costui l’ha detta giusta ci ritroveremmo come un semplice strumento nella guerra Usa-Cina. Un po’ assurdo, considerando poi che nel regime cinese i finanzieri e gli industriali siedano proprio in quel partito la cui caratteristica è la “presenza dello stato nell’economia”…
Ma perché ritiene così fondamentale il Ttip?
Oggi siamo entrati nella seconda fase della globalizzazione(?), con un aumento dei consumi nei nuovi mercati emergenti, che rappresenta uno sbocco strutturale sempre più importante per le nostre imprese. In parole semplici stiamo iniziando ad incassare il dividendo degli investimenti fatti nella prima fase.
Io direi a pagarne il prezzo, dato che già nei Ruggenti Ottanta tale ingiustificata euforia era all’ordine del giorno. E certo se il trattato è davvero bilaterale, chi ci assicura che noi non verremmo trattati come noi abbiamo trattato gli altri?
Ma c’è una condizione indispensabile perché ciò si verifichi e cioè che il processo di apertura dei nuovi mercati non si arresti. [Sic: neoliberismo sans serif] Purtroppo invece ci sono molto segnali che i Brics stiano puntando a trattenere all’interno dei propri confini i vantaggi che derivano dalla crescita degli ultimi due decenni, cercando di a soddisfare in proprio il bisogno di consumi della nuova classe media.
Non è il bue che da del cornuto all’asino?
Invece dobbiamo spingere i Brics ad aprirsi ai nostri prodotti e, se non chiudiamo il Ttip, questa operazione sarà più difficile.
Logisticamente verrebbe da chiedersi allora perché gli Usa dovrebbero per forza essere gli intermediari. Cioè quelli che hanno il coltello dalla parte del manico. Dubito che otterremo mai una risposta.
Andando infine ancora più a ritroso però la questione viene presentata senza troppi fronzoli, tanto che si può definire l’ultima fase del processo una vera e propria giravolta.
L’articolista tenta invano di giustificare lo scandalo dello spionaggio da parte della NSA:
Allo stesso tempo, gli europei sanno benissimo che una parte importante delle attività americane di ascolto nei loro Paesi ha consentito di sventare minacce portate anche alla loro stessa sicurezza da organizzazioni terroristiche di varia natura e di vario genere. Così come sanno che loro stessi, quando sono in grado di farlo e nei confronti di chi possono farlo, si comportano esattamente nella stessa maniera.
Insomma: tutti ladri nessuno ladro. E per tentare di ricucire questa ferita l’articolista continua:
Chiarito tutto questo e data la giusta dimensione allo scandalo Datagate, non va dimenticato che, proprio per la capillarità e la massività delle attività di ascolto americane, molte delle intercettazioni compiute non riguardavano neanche lontanamente la sicurezza americana e degli alleati, ma piuttosto sembravano destinate a colpire potenziali competitori europei di aziende americane.
Perché non importa se spiano nella tua intimità, fossi anche il più ricco al mondo, ma se provi a toccare la concorrenza e la proprietà lì allora sì che commetti un peccato (al) capitale!
Qui si entra nel campo della concorrenza sleale che, ripetiamo, con la sicurezza nazionale non ha nulla a che vedere ma è comunque inaccettabile. Tanto più mentre Europa ed America stanno, insieme, lavorando per dar vita a quella Transatlantic trade and investments partneship (Ttip) che spiace a tanti vecchi e nuovi rivali.
Diritti umani? Ma no: l’economia è più importante!
Il vero risultato cruciale che ci si aspetta dal Ttip andrebbe ben oltre quello di costituire una grande area economica e finanziaria integrata. Esso si propone in effetti di dare vita e istituzionalizzare una “good governance” che regolerebbe le transazioni di un’area che ancora vale circa il 45% del Pil del mondo.
Ovvio che queste considerazioni non si rivolgono più a quattro poveri squattrinati, ma a chi da ciò trarrebbe vantaggi diretti. Il re è nudo.
Come avviene in ogni caso di regionalismo di successo, il suo buon funzionamento finirebbe fatalmente con l’attrarre e fare convergere sulle sue prassi anche i Paesi esterni alla sua area, contribuendo a salvaguardare il ruolo dell’Occidente nel sistema economico globale.
Come volevasi dimostrare.
Forse a Washington dovrebbero iniziare a chiedersi se un simile obiettivo non sia più prezioso di qualunque attività spionistica e a Berlino e Parigi bisognerà domandarsi se boicottare i lavori del Ttip non sarebbe il peggiore degli autogol…
Direi piuttosto che gli unici ad essersi dati la zappa sui piedi sono proprio coloro che hanno pensato di ideare un tale trattato controverso in segreto e farlo trapelare. Non di meno, chi prima l’ha appoggiato con tanta nonchalance e poi, con grande vergogna, si è visto costretto a rivalutare Don Milani.
Ottimo articolo FSMosconi, aggiungo solo qualche informazione secondaria:
– con molta probabilità e per nostra fortuna il TTIP non vedrá mai la luce: il Parlamento europeo ha infatti rimandato a data da destinarsi il voto sull’approvazione del trattato;
– l’omologo asiatico del TTIP, il Trans Pacific Patnership (TPP) è parimenti un cadavere ambulante: all’ultimo vertice del Pacifico, lo scorso novembre, gli 11 paesi che avevano manifestato intenzione di aderirvi lo hanno cassato in blocco, preferendogli lo FTAAP proposto dalla Cina. Anche il Giappone, che del TPP fa giá parte, ha dichiarato che se ne chiamerá fuori se non sarà sostanzialmente modificato.