Lo scorso articolo su questo tema iniziava con questa domanda:
Come reagisce la Chiesa Cattolica allo svuotarsi dei propri luoghi di culto a cui destina (meglio: destiniamo, data la ripartizione delle scelte col’8×1000) così tanti soldi ed energie?
Ebbene, oggi Avvenire ci fornisce una risposta pratica. Non molto edificante per chi l’ha data invero. Se la risposta di Ignazio Sanna è una razionalizzazione bella e buona, o la classica civetta di Minerva che dir si voglia, i nostri articolisti del quotidiano vescovile si sono trovati solo ora un’idea pratica proveniente dal Nord Europa. Ma nemmeno questa pare molto vincente, e vedremo perché.
In Germania la parrocchia ha già cambiato volto. Conserva, sì, il nome del santo o del beato che da sempre la identifica. Ma non è più «per tutti» indistintamente.
Per dire che già partiamo col piede sbagliato. Secondo quale premessa un edificio adibito esclusivamente al culto cristiano cattolico romano dovrebbe avere la pretesa di monopolizzare lo spazio pubblico? Di reclamare un ruolo che non ha mai avuto?
Chi ha interessi artistici può rivolgersi alla
Kulturkirche, la “chiesa della cultura” di Amburgo. L’adolescente ha una bussola nella Jugendkirche di Berlino, la “chiesa dei giovani”. Il migrante in difficoltà o il disoccupato entra nella Diakoniekirche, la “chiesa del servizio” alle porte di Francoforte che offre consulenze e itinerari di sostegno.
Il prossimo passo quale sarà? Riunire tutti questi luoghi in una catena di montaggio della vita privata e comune come già in America tentano di fare le multinazionali?
Si tratta di esperienze parrocchiali, o meglio de-parrocchiali, che sono espressione sia del mondo cattolico, sia di quello evangelico (notare che, data la comunella, non si usa il più accusatorio protestanti) e che nascono nei quartieri delle grandi città dove dominano gli uffici oppure i condomini in cui chi li abita arriva a sera e riparte al mattino.
Che, senza offesa, detta così sembra tanto ostello della gioventù… ma entriamo nel merito: in pratica si tratta di capitolare prima che gli eventi facciano il loro corso nella propria distruzione. Come se per evitare che una città subisca un attentato il sindaco piazzi a bella posta delle bombe un po’ ovunque per poi gridare trionfante alle televisioni: “gnè gnè l’ho fatto prima io!”.
Le chiamano Citykirche e sono chiese che hanno come riferimento una zona dinamica (la City, appunto) in cui si mescolano impiegati, passanti o residenti dormi-e-fuggi.
Cioè in pratica un bar. O un centro sociale. O un pub. O una discoteca. Giusto per ricordare quanto sia disperata la cosa posta in termini umani.
Ancor di più poi se intendiamo quel city come quello che in inglese americano si indichi come Downtown, cioè la parte generalmente ricca impiegatizia commerciale turistica e/o finanziaria (in termini marxiani: medio-altro borghese) di un agglomerato urbano. Nel qual caso questa sarebbe un vero e proprio furto culturale, un bozzolo di tradizione inventata, una pallida imitazione radical-chic (molto Renzi-Farinettiana invero) di un vero e proprio centro sociale o comitato cittadino. In termini puramente estetici: una trovata kitsch fino in fondo, al di là delle buone intenzioni.
E vogliono essere la risposta nordeuropea alla crisi della parrocchia concepita secondo il modello tridentino (almeno guardando alla Chiesa cattolica).
Se il fedele fugge dalla chiesa, la chiesa fugge dal fedele. Strategicamente impeccabile.
Parrocchie «liquide», le definisce Arnaud Join-Lambert, docente francese di teologia pastorale e liturgia all’Università Cattolica di Lovanio in Belgio, che le indica come nuove forme di comunità capaci di adattarsi alla “liquidità” della società europea, ricorrendo alla celebre categoria del sociologo Zygmunt Bauman.
Non-parrocchie di fatto quindi. Un po’ come dei Rotary Club novecenteschi: delle riunioni massoniche senza tutto l’impianto teologico piccolo-borghese. (O almeno così riferisce Gramsci nei Quaderni)
Se i rapporti sociali sono liquidi, anche le parrocchie possono diventare liquide
Qualunque cosa questo voglia significare…
prospetta il teologo in un saggio pubblicato dalla Rivista del clero italiano, il mensile di aggiornamento pastorale dell’Università Cattolica.
Pubblicità gratuita? Pubblicità gratuita…
«La loro caratteristica – spiega il docente – è di andare verso le periferie esistenziali».
Nella city… nelle periferie, quelle reali, no? Troppa paura di scontrarsi coi veri comitati cittadini?!
Perché le attuali parrocchie cominciano a «somigliare a club» che soddisfano «i bisogni spirituali di alcuni» ma «ignorano o trascurano la sete spirituale della maggioranza».
Torniamo ancora sulla Terra per favore: “Chi vuole la ‘visione’ vada al cinematografo” (Max Weber). Diciamo anche se da troppo per scontato che la questione sia nei termini posti qui: nel senso di una povera massa di anonimi che sente pressante le necessità di un “medico” spirituale che guarda caso coincide con la Chiesa Cattolica… e se uno volesse diventare animista? O rimanere apateista?
Il campanile resta, ma si trasforma. Come mostrano i prototipi parrocchiali tedeschi che propongono una «specializzazione dell’offerta spirituale».
Sì dai: rubiamo pure la terminologia economica già che ci siamo, giusto per ribadire che la nostra visione non conta più nulla.
«Non sono luoghi in cui una comunità di fedeli più o meno stabile vive il “tutto per tutti”, né luoghi per il raduno domenicale – nota il teologo –.
Cioè non sono parrocchie nemmeno nelle intenzioni.
Tuttavia sono contrassegnati dal bello (esposizioni, concerti, creazioni artistiche e culturali), dal bene (aiuto ai migranti, alle persone precarizzate) e dal vero (formazioni, conferenze, scambi)».
Tutto meno che messe e riti… giustificato con una razionalizzazione scolastica da manuale.
Una rivoluzione che, aggiunge lo studioso, richiede mezzi: aperture non stop, persone esperte nell’accompagnamento, volontari.
E il tempo per le messe? Nah: chi ci va più. A questo punto è lecito chiedersi che differenza c’è tra questo e una chiesa sconsacrata affidata a centri sociali, gruppi artistici etc.
Per «inventare le parrocchie di domani» Join-Lambert si affida anche a due vocaboli economici: incubatori e start-up. Se gli incubatori sono «concentrazioni di persone qualificate impegnate in progetti innovativi», la loro declinazione ecclesiale dà vita a percorsi che «favoriscono il dialogo intorno a tematiche comuni».
Chiamarlo surrogato di comitato cittadino era troppo triste, evidentemente.
È il caso in Francia di Saint Joseph a Grenoble che ha scommesso sulla pastorale dei giovani o di Marthe-et-Marie nel nuovo quartiere Humanicité a Lomme (Lille) che si dedica all’accoglienza. Le start-up, aziende con scarsi mezzi ma sorrette da organici motivati(???), si traducono in spazi cristiani che hanno al centro l’ospitalità presentata secondo l’icona del Vangelo della Visitazione. Ecco allora la Church on the corner, riallestimento “sacro” di un antico bistrot nel sobborgo londinese di Islington.
A quanto pare dei termini economici hanno rubato anche la finzione pubblicitaria…
L’intento di questi esperimenti è di «provocare e curare l’incontro» soprattutto di coloro «che sono lontani» dalla Chiesa, sottolinea il teologo.
Che poi seguano o meno i dettami politici religiosi sociali della stessa Chiesa è irrilevante.
Il docente prende a prestito le parole di papa Francesco che nell’Evangelii gaudium ricorda come «il rinnovamento delle parrocchie non abbia ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente».
Come darsi la zappa sui piedi.
E sentenzia: «È l’ora della polivalenza». Ma tiene precisare: «La parrocchia non può sparire».
Mi chiedo come nelle chiese con altre attività dalla durata di 24h su 24 ciò sia possibile…
Oggi, chiarisce Join-Lambert, la vita cristiana è «basata sull’attività spirituale e non su strutture, su un decentramento dell’ufficio domenicale
In pratica: c’è meno gente a messa e quindi le messe si celebrano un po’ qui un po’ lì dove capita. Come ha fatto notare Marzano (2012).
su una parte crescente composta da quanti iniziano o ricominciano in rapporto ai fedeli di sempre, e sul passaggio limitato nel tempo in seno a una chiesa precisa»
Questo immagino fenomeno più anglosassone e americano, in particolare nella parte latina dove gli evangelici stanno togliendo il terreno ai cattolici. In sintesi: con queste parole il prelato ammette che i cattolici si stiano provando a riciclare cristiani generici, cioè nessuno in particolare (ma con pretese di unicità).
Allora la parrocchia è chiamata a una conversione pastorale, magari ispirandosi all’immagine della «barca che preserva una parte di solidità in un mondo fluido ma non ha più punti di ancoraggio sociale o culturale».
Piuttosto falsato come immaginario, dato che come abbiamo visto non sussiste più la differenza nemmeno tra chiesa sconsacrata e chiesa consacrata. A parte la proprietà.
Essenziale diventano il concetto di «rete fra parrocchie » che il teologo richiama più volte quando ipotizza chiese ad hoc e quello della «comunione tra le comunità nelle sue diverse dimensioni».
Il che porta con sé il dubbio molto forte che non abbiano pensato nemmeno alla questione politica della futura pretesa d’autonomia, dato che da che mondo è mondo se crei dei centri autonomi nel controllo effettivo ma dipendenti da uno è centrale la questione presto o tardi si porrà.
Princìpi che fanno venire in mente le unità pastorali care ai vescovi italiani (mai citate nell’articolo).
Quelli che, per intenderci, non hanno nemmeno il coraggio di chiudere chiese vuote per paura di “abbandonare” i risicato fedeli del quartiere. Forse il concetto non è proprio lo stesso.
Per il docente, la parrocchia informale [sic!] ha bisogno di «figure familiari di autorità»: il parroco, sì, ma affiancato dai religiosi che possono dedicarsi alla direzione spirituale o addirittura da un teologo.
E dopo la parrocchia sconsacrata, ecco l’organizzazione in stampo in tutto e per tutto evangelico. Per la precisione nemmeno di quelle simpatiche chiese evangeliche rionali a conduzione familiare che si possono trovare ad Harlem (New York), ma proprio quelle sette evangeliche con annessi telepredicatori che tanto sdegno e ilarità suscitano in noi europei d’Oltreoceano.
E soprattutto va «incoraggiato» il laicato.
Esattamente come gli evangelisti. Una soluzione di ripiego da manuale anch’essa.
Serve «elasticità» – conclude Join-Lambert – per «poter continuare ad annunciare il Vangelo con modalità di socializzazione ed espressioni culturali del nostro tempo».
E quale migliore elasticità se non rubare i cavalli di battaglia altrui? Come scrivevo più sopra: una strategia che è persa in partenza. E nemmeno si degna di ammetterlo.
Ma davvero la parrocchia liquida è la soluzione? E poi può essere esportata in Italia?
A quanto abbiamo notato, si può dire che la domanda sia senza dubbio legittima…
Occhio che il primo link è sbagliato… ed anche l’impaginazione avrebbe bisogno di una sistemata
Per quanto riguarda il resto, ottimo articolo come sempre FSMosconi! (A mio giudizio la chiesa nella foto sembra una sala per torneo di poker allestita da Adinolfi…)