Negli ultimi anni, le questioni relative ai trattamenti di fine vita, ossia quelle pratiche attive o passive per determinare la morte di un paziente in stato terminale, sono diventate oggetto di un intenso dibattito pubblico negli Usa. Legislatori e giudici, leader religiosi e scienziati, cittadini e politici hanno espresso il loro punto di vista su quando e se una persona possa rifiutare le cure mediche ed accelerare la morte (cosiddetta eutanasia passiva) oppure se si possa avere il diritto di ricorrere ad un medico professionista che – somministrando farmaci letali – provochi la fine della vita del paziente (cosiddetta eutanasia attiva).
Negli ultimi 20 anni, quattro stati – Oregon, Washington, Montana e Vermont – hanno legalizzato l’eutanasia attiva e almeno una mezza dozzina di altri hanno considerato la questione.
Il dibattito riguarda anche se e quando sia lecito interrompere un trattamento vitale e chi possa prendere, al posto del paziente, questa importante decisione.
Secondo un sondaggio Gallup la maggioranza degli europei è favore dell’eutanasia attiva mentre, in base ad una rilevazione di Eurispes, gli italiani sarebbero divisi sulla liceità di questa pratica. Anche se in assenza di una legge che regolamenti in Italia l’eutanasia passiva, questa resta un diritto costituzionale.
La stessa frattura che si rivela nell’opinione pubblica italiana è presente anche in quella statunitense secondo quanto emerge da un sondaggio realizzato dal Pew Research Center.
L’istituto di ricerca ha sondato il parere degli americani dal 1990 ed in questi anni è progressivamente diminuita la percentuale di chi non ha un’opinione in merito passando dal 12 per cento di 23 anni fa al 3 per cento della rilevazione di quest’anno.
Per 66 americani su 100 in alcune circostanze medici ed infermieri dovrebbero permettere al paziente di morire mentre per il 31 per cento bisognerebbe sempre fare il possibile per salvare l’assistito.
Sebbene la maggioranza degli intervistati sia a favore di una qualche forma di eutanasia, questa percentuale è diminuita di sette punti dal 1990 quando 73 persone su 100 ritenevano che in alcune situazioni fosse giusto aiutare il paziente a morire. Allo stesso tempo sempre più persone non ritengono ammissibile un trattamento di fine vita (15 per cento nel 1990 e 31 nel 2013).
Nel parlare di una situazione più personale, variano le risposte degli americani in base alle circostanze che potrebbero affrontare. Ad esempio 57 americani su 100 direbbero ai loro medici di interrompere il trattamento nel caso in cui avessero una malattia senza possibilità di migliorare che arrechi un grande dolore: al contrario il 35 direbbe ai medici di fare tutto il possibile per preservare la vita con un aumento di sette punti percentuali rispetto al 1990. Circa la metà (52 per cento) chiederebbe ai medici di interrompere la terapia in caso di una malattia incurabile che li renda totalmente dipendenti da qualcun altro.
Una percentuale inferiore (46 per cento) chiederebbe di morire se una malattia renda difficile praticare le attività quotidiane mentre lo stesso numero di intervistati chiederebbe ai medici di continuare la terapia.
Le scelte sul trattamento di fine vita sono fortemente correlate alla religione, alla razza ed all’etnia. La maggior parte dei bianchi protestanti (72 per cento), cattolici (65) e protestanti evangelici (62) interromperebbe il trattamento medico nel caso di una malattia incurabile che causi grandi sofferenze. Al contrario, la maggior parte dei protestanti neri (61 per cento) ed il 57 per cento degli ispanici cattolici direbbe ai loro medici di fare tutto il possibile per salvare le loro vite. Quindi neri ed ispanici sono meno propensi dei bianchi ad interrompere le terapie mediche.
Da un punto di vista prettamente morale una quota crescente di americani pensa che gli individui abbiano il diritto di porre fine alla loro vita. Il 62 per cento pensa che una persona che stia soffrendo a causa di una malattia senza possibilità di miglioramento abbia il diritto morale di suicidarsi: nel 1990 questa percentuale era del 55 per cento. Il 56 per cento (49 nel 1990) ritiene che questa estrema opzione è ammissibile in caso di una malattia incurabile. Molti meno (38 su 100) pensano che sia moralmente accettabile morire quando vivere sia diventato un peso: in ogni caso questa percentuale è aumentata di 11 punti rispetto al 1990 quando era il 27 per cento. Una minoranza (32 per cento) pensa che si abbia il diritto morale di suicidarsi quando si è un peso per la propria famiglia: nel 1990 a pensarla in questo modo era il 29 per cento degli intervistati.
I gruppi religiosi differiscono fortemente anche nelle opinioni sulla moralità del suicidio. Circa la metà dei bianchi protestanti evangelici e protestanti neri respingono l’idea che una persona abbia il diritto morale di suicidarsi in tutte e quattro le circostanze descritte nel sondaggio. Al contrario i bianchi protestanti, i bianchi cattolici e coloro che non hanno affiliazione religiosa sono più propensi a dire che ci sia un diritto morale di suicidarsi in ciascuna delle quattro situazioni considerate.
Nonostante la popolazione sopra i 65 anni di età sia più che triplicata nel corso dell’ultimo secolo passando dal 4 per cento del 1900 al 14 del 2012, una parte consistente non ha ancora pensato a quale decisione adotterebbe in caso si trovasse ad affrontare una grave malattia. Solo il 37 per cento ha riflettuto approfonditamente con un 35 per cento che ha avuto qualche pensiero a riguardo ma con un consistente 27 per cento che non ci ha meditato affatto.
Con l’aumentare dell’età aumenta l’importanza per questo genere di decisione ma anche un over 75 su quattro non ha ragionato affatto su questo tipo di scelta.
Nell’opinione pubblica americana c’è un largo consenso sul fatto che un membro della famiglia dovrebbe poter prendere le decisioni sui trattamenti di fine vita nel caso in cui il paziente sia impossibilitato e le sue volontà non siano note. Circa otto adulti su dieci adulti (78 per cento) dicono che al familiare più stretto dovrebbe essere consentito di adottare questo tipo di scelta mentre il 16 non è d’accordo.
Nel caso in cui un bambino fosse affetto sin dalla nascita da un difetto che mette in pericolo la sua vita, la maggioranza (57 per cento) pensa che debba essere fatto tutto il possibile per salvarlo mentre il 38 crede che i genitori abbiano il diritto di rifiutare i trattamenti medici per conto del proprio figlio.
Nonostante l’opinione pubblica appoggi in maggioranza l’eutanasia passiva resta la divisione sull’opportunità di leggi che permetterebbero quella attiva: il 47 per cento approverebbe una legge da consentire ai medici di somministrare dosi letali di farmaci ai malati terminali che scelgono di porre fine alla loro vita ma esiste un 49 per cento di contrari a questa possibilità. Nel 2005 ad essere a favore erano il 46 per cento ed i contrari il 45.
La maggioranza di bianchi protestanti (61 per cento) e cattolici (55) è a favore di una legge sull’eutanasia attiva mentre la maggioranza di ispanici cattolici (63 per cento), bianchi evangelici (67) e neri protestanti (72) è contraria.
Nell’America di Obama che ha sempre meno legami religiosi ed in cui aumenta il consenso a favore della legalizzazione dell’aborto, del matrimonio omosessuale, della marijuana (secondo un sondaggio di Gallup e del Pew Research Center) ed in cui lentamente diminuisce il favore verso la pena di morte, la battaglia per chi ritiene sia un diritto porre fine alla propria vita risulta un po’ più difficile.
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