Nonostante siano passati 32 anni dall’approvazione della legge 194 che regolamenta l’aborto in Italia e sebbene gli aborti in questo terzo di secolo si siano in pratica dimezzati, in Italia resiste un movimento che vorrebbe rendere l’aborto illegale o quanto meno rimandarlo nella clandestinità.
A sostegno di tale tesi Virginia Lalli sulla rivista Notizie Pro Vita propone l’articolo (ripubblicato dai nostri amici uccrociati) “Dove l’aborto è libero le donne muoiono di più” e si richiama all’articolo “Abortionists are not held accountable for mistake” di Lenora W. Berning pubblicato sul sito pro-life afterabortion.org dell’Elliott Institute, un’organizzazione che ha i tra i suoi scopi quello di restringere l’accesso all’aborto.
Così scrive Virginia Lalli: «Le cliniche abortiste (negli Usa, ndr), che offrono normalmente solo quel servizio, cioè non sono ospedali polifunzionali, mantengono i medici abortisti liberi da responsabilità per eventuali complicazioni. Coloro che sono favorevoli all’aborto su richiesta sostengono che il tasso di complicanze riportato a seguito di aborti è basso. Ma ciò accade non perché ci siano poche complicazioni, ma perché le complicazioni sono sottostimate. E sono sottostimate, perché non c’è un sistema organizzato oggi atto a quantificare le ripercussioni dannose dell’aborto. L’industria dell’aborto ha mantenuto gli abortisti liberi da ogni tipo di supervisione, regolamentazione, e da responsabilità che sono invece normali per tutto il resto dei professionisti sanitari». Ovviamente la situazione statunitense non è per niente applicabile al contesto italiano dove gli aborti sono eseguiti in ospedali pubblici polifunzionali (e non cliniche private) in cui i medici sono responsabili del loro operato e dove ogni anno viene pubblicata una relazione da parte del ministero della Sanità con le percentuali di complicazioni a seguito di interruzione volontaria di gravidanza. Continua a leggere