Quanto state per leggere non è stato scritto esplicitamente per Pontilex, e forse non lo riguarda strettamente. Ma, siccome ultimamente pare andare molto di moda l’esorcismo, dico anch’io la mia. A fine articolo un poco di documentazione!
Forse era la paura che stravolgeva le sue percezioni; ma appurarlo non la interessava minimamente: per quel che la riguardava, in tutta la sua vita, non aveva mai visto nulla di altrettanto terrificante. Non aveva tentacoli, non emetteva bava e non mostrava le zanne e, con esse, la sua sete di sangue; il suo volto le era conosciuto e, anzi, addirittura familiare, ma, nonostante ciò, riusciva comunque a farle beccheggiare il cuore come un guscio di noce nell’oceano incazzato.
Perché non era lui, il suo aspetto, a terrorizzarla; non tanto, almeno, quanto quello che stava facendo che, pure, sapeva essere, per lui, del tutto naturale, ed il rumore che emetteva o, meglio, che a lei sembrava stesse emettendo. Il che era peggio.
Acuto, stridente, fastidioso, come di ghiaccio che s’incrina e poi si spezza; e lei, U.D.B., lo sapeva bene che cos’era che quell’individuo, quel mostro, forse coscientemente, con l’arroganza di chi si è in qualche occasione, reso utile, stava mandando in frantumi: il suo successo, la sua fama e, soprattutto, il suo contratto a tanti zeri che non aveva mai avuto il tempo di contarli tutti. Suoi di lei, si intendeva, che lui, che faceva il truccatore e le stava di lato, di fronte a tutte le telecamere delle studio, grattandosi vistosamente e, pareva, con gran gusto, il pacco (bazzecole, direte voi: ma molta gente, per molto meno, era scomparsa dai palinsesti dalla sera alla mattina), lo conosceva come volto, anzi, meglio, come impiegato televisivo forse solo sua madre. Forse.
Cosa fare, ora? Come cavarsi d’impaccio? Buttarla in caciara, era forse una buona soluzione? No, no, non era abbastanza, di certo non quello che in un momento del genere ci si sarebbe aspettati da una come lei.
Una fame d’aria si fece strada dentro i suoi polmoni, e crebbe fino a diventare claustrofobica; cominciò a sudarle perfino il cervello, e questo non l’aiutava di sicuro a pensare. Chiamare in aiuto il pubblico? Bastava che si rivolgesse a quell’imbecille con un insulto appena un po’ arguto, e tutti sarebbero esplosi prima in una risata, e di gusto, anche, e poi in un applauso sincero e divertito.
Ma neppure questo era abbastanza; si stava parlando di uno che si grattava il pacco in diretta televisiva, sulla “rete che raccoglieva più ascolti di tutti” in quella fascia oraria. Che cazzo doveva fare per salvare il posto?
L’illuminazione la colse, all’improvviso, come un’insolazione in agosto: il pistolotto morale! La corruzione dei costumi! I bei tempi andati! Eccola, la panacea di tutti i mali, suoi ed altrui!
Sgranando gli occhi, si girò, finalmente, a guardare il truccatore, che fino a quel momento aveva ignorato, forse con la riposta speranza che quello sarebbe sparito se lei avesse evitato di voltarsi dalla sua parte, e pronunciò un “Marco!”, sperando di aver indovinato il nome giusto, e più o meno col tono che pensava sarebbe stato appropriato utilizzare se l’avesse trovato, diciamo, a pisciare in bocca alla sua migliore amica. Sua di lei, s’intendeva, che la migliore amica di lui non era famosa abbastanza per dare scandalo, se qualcuno non l’avesse capito.
Quello, per parte sua, non se ne diede per inteso, e continuò a sghignazzare beatamente; era evidentemente ignaro, se non della posta in gioco, quanto meno di come erano assegnate le parti in uno spettacolo del genere. U.D.B. tentò dunque, disperatamente, di salvare il salvabile, con un “Ma che fai?”, la cui inflessione lasciava poco spazio all’interpretazione. O almeno, fece il possibile, perché fosse così.
Sopravvalutava l’intelligenza di lui, o le sue capacità attoriali, perché quello, invece di cessare e di confessarsi imbarazzato grandemente, mise il carico da undici: “Io mi gratto le palle. Tu invece, che cazzo fai?”, e la fissò, come se si aspettasse che lei gli rispondesse. Lei, che si stava incamminando sulla china che conduce dritta dritta alla morte cardiaca improvvisa.
Ma perché, perché si era messo in testa che voleva ucciderla o, peggio, rovinarla? Che cosa gli aveva fatto? Certo, qualche volta gli aveva dato del coglione, della testa di cazzo, e perfino del frocio, ma quelle sono cose che si dicono e che, con l’eccezione del frocio, non distruggono una vita ed una carriera, anche perché, per legge non scritta, non vengono mai proferite davanti alle telecamere. Non senza uno script!
Le telecamere, già, le telecamere. Erano la sua ultima possibilità. Qual era che la stava inquadrando? Sperando di indovinarci, e che quelli in regia non fossero impazziti e capissero che dovevano farle un primo piano, ruotò la testa verso la due, che le stava proprio di fronte, con la ferma intenzione di liberarsi di quella zavorra. E, se si fosse impegnata un poco, sarebbe pure riuscita a tirar fuori un caso con cui riempire qualche ora di programmazione, che gli omicidi efferati ultimamente scarseggiavano, maledetti tempi moderni.
La luce sopra la camera era spenta. Cazzo. E come se non bastasse quello stronzo del cameraman, pure, se la stava… se la stava ridendo? Ma vuoi vedere che…
“Ma andate a fanculo!” sbottò alla fine la D.B. “Siamo in pubblicità? Perché non m’avete avvertito? C’ho fatto una figura di merda!”
“Scherzetto” fece il truccatore, divertito, e si avvicinò con una spugnetta “Ritocco?”.
“Sì, va’, che m’avete fatto sudare a freddo”.
“Esagerata! Per così poco!”.
“Poco? Mi sono già vista il direttore di rete che mi strappava il contratto davanti alla faccia! Chi c’è adesso?”.
“La ragazzina posseduta”.
“E l’hai truccata come?”. Risero.
“Piuttosto, siamo davvero sicuri che sia davvero posseduta?” chiese la D.B.
“In che senso, davvero posseduta?”.
“L’ultima volta con quella bambina che doveva avere il cancro sì che c’ho fatto una figura di merda”.
“Perché?”
“Perché è saltato fuori che quella non c’aveva un caz…”. S’interruppe. Il suo radar anti – intrusi aveva cominciato a trillare oltre i livelli di guardia. E non si sbagliava.
In silenzio, nello studio era entrata una ragazza. Poteva avere al massimo vent’anni, non troppo alta ma in compenso troppo magra, il volto piccolo ed allungato, le orbite incavate ed il naso affilato, di colorito pallido, anzi, bianco – grigiastro, con i capelli neri che le ricadevano appena dietro le spalle. Le tremavano un poco le mani.
“È questa” sussurrò il truccatore.
“Ah sì, siediti lì” disse D.B.
“Lì dove?” domandò la ragazza, con voce piuttosto flebile.
“Lì, davanti a me!” rispose la presentatrice, scocciata. “Quanto manca?” domandò poi a qualcun altro.
“Trenta secondi” rispose una voce.
“A me va bene, Marco. Questa sta a posto?”. Indicò la ragazza con la testa.
La ragazza cominciò col dire “Credo…”, ma fu troncata di netto dal truccatore che disse: “Sì”, e ritenne poi non ci fosse niente da aggiungere.
“Cinque” disse la stessa voce di prima.
“Quattro”. “Tre”. “Due”.
“Come hai detto che ti chiami?” chiese la presentatrice a bruciapelo.
“Io… ecco… E.R.” balbettò la ragazza.
“Parla più chiaro che…”. “In onda!” fece la voce, e d’improvviso, e senza motivo alcuno, E. si trovò davanti i denti della presentatrice, su fino ai canini.
“Bentornati, E. mi stava giusto raccontando” allungò una mano per prendere la sua “della sua brutta esperienza, della sua possessione…”. Il sorriso si spense, ed il volto si arrese alla forza di gravità: ogni cosa precipitò verso il basso, a comporre una brutta imitazione dello smile rovesciato. Per poco, non le crollò anche l’acconciatura, così, per solidarietà.
“Sì”, si limitò a rispondere E.
“Vorresti parlarne con noi?”.
“Non saprei da dove cominciare…”
“Comincia dall’inizio” disse la presentatrice. Un poco gli angoli della sua bocca si risollevarono, “Dicci, come sei arrivata a queste condizioni? Mi scuserai ma, vedi, mi sembri piuttosto…”
“Denutrita?”
“Esatto”.
“Colpa dei digiuni”.
“Digiuni?”.
“Sì, spesso stavo digiuna. Ed anche quando mangiavo, non era mai moltissimo; e spesso lo vomitavo”.
“Come mai?”.
“Non lo so, anche se…”.
“Vedo anche che hai dei lividi”, la interruppe la presentatrice.
“Sì, questi sono i segni delle corde”.
“Corde?”.
“Sì”.
“Avete capito, amici da casa, a che livelli siamo? Questa ragazza doveva essere legata al letto perché…”
“Al letto? No, no, non dormivo legata al letto. Mi legavano i polsi, ma poi dormivo sul pavimento”.
Silenzio.
“Comunque, molte volte ci passavo anche le giornate, lì”.
“E, cosa facevi?”.
“Non molto, più che altro urlavo. Sì, urlavo. Gli urli sono la cosa che ricordo meglio. Probabilmente mi divincolavo e cercavo di slegarmi. Forse qualche livido lo devo a quello”.
“È terribile, tesoro. Chiedo al pubblico di sostenerti con un applauso”. Puntuale come un orologio, arrivò.
“Grazie”.
“Vedo anche dei segni sulle tue ginocchia”.
“Sì, le genuflessioni”.
“Le genuflessioni?”
“Esatto. Quando sul pavimento non ci stavo sdraiata, ci stavo inginocchiata. Per delle ore”.
“Mi stupisce il modo lucido in cui tu lo racconti”.
“Capirà che sono ricordi difficili da rimuovere”.
“Comprensibile, comprensibile. Hai qualcos’altro da raccontarci?”.
“Io… non so se posso raccontarlo in televisione”.
“Perché? È così… forte?”.
“È… imbarazzante. E personale”.
“Pensiamo di aver compreso, ma, cosa ti è successo, esattamente?”.
“Non saprei dirlo. Ricordo solo di aver provato un forte dolore, ed un senso di… intorpidimento che è durato per giorni. Quella è stata l’ultima goccia. È stato allora che…”
“Hai chiesto l’aiuto di un esorcista”.
“Cosa?”.
“Dico, è stato allora che hai pensato di essere posseduta e ti sei rivolta ad un esorcista”.
“Niente affatto”.
“Come?”
“È stato allora che sono scappata di casa. Io non sono mai andata dall’esorcista, perché non sono mai stata posseduta”.
“Come no?”. Non riuscì a trattenersi. Stavolta gli autori avrebbero fatto un salto dalla finestra. Di testa.
“No. Era mia madre che ne era convinta, ma io sono sempre stata benissimo. Ed è una fortuna che alla fine sia riuscita a scappare, oppure non sarei qui a raccontarlo”.
“Ma, allora, quello che ci hai raccontato prima, cos’era?”.
“Vari… particolari del rito di esorcismo a cui sono stato costretta a sottopormi per quasi un anno”.
Un altro scherzo. Di sicuro. Guardò Marco. La mandibola gli era arrivata dalle parti delle ginocchia.
Quasi urlò: “Pubblicità!”
Col vostro aiuto abbiamo fatto molto, per tanti.
Fin qui, la finzione e la satira (che, come sempre, spero mi sia venuta decente). A questo link, tuttavia, trovate la storia (vera ed ahimé drammatica) che l’ha ispirata.
la satira è carina e mi ricorda, invece, alcune espressioni pontifesse (tipo non grattarti le palle … in pubblico – tipo se non sono mostri non li vogliamo – tipo falsa accoglienza e sfruttamento delle disgrazie altrui – tipo smentite e bufale per fare share) la storia linkata è agghiacciante.