Ancora su Avvenire e l’economia o “Ma non si parlava di soldi?”

CJesus_facepalmOggi si tenterà di mettere un punto alla storia già precedentemente aperta dagli altri articoli sulla concezione economica di Avvenire, o quantomeno su quella dell’unico suo articolista che si è prodigato a scrivere editoriali in tale proposito.

Questa volta ritrovarsi spiazzati è più che lecito, dato che le obiezioni dell’ultima volta, forse involontariamente, vengono avallate con nonchalance. Vale a dire che se il sottoscritto l’ultima volta ha notato che era

Sintomatico come venga identificato in modo molto calvinista un’intrapresa capitalista con un ordine religioso

In effetti poi il Bruni ci venga platealmente incontro affermando che in effetti sì: non distingue comunità religiosa e intrapresa capitalista! Con tutta la buona pace delle premesse iniziali

Ma andiamo a commentare direttamente lo scritto:

I grandi processi di cambiamento, quelli capaci di rigenerare l’intero corpo e dare il via ad una nuova primavera, non sono mai innescati e guidati dalle élite che hanno governato la fase dell’emergere della crisi.

Altrimenti si tratta di Restaurazioni, conosciute anche come contro-rivoluzioni o rivoluzioni passive. E fin qui d’accordo. Ma manterrà fede a questa premessa? A chi si rivolgerà mai: ai subordinati?

 Questa dinamica è nota e di portata generale, quindi vale anche per quelle realtà che abbiamo chiamato comunità e movimenti carismatici (perché nati da un carisma, da un dono di “occhi diversi” sul mondo).

(Che ripetiamo è ideale e tale rimane)

Il mestiere più difficile ma veramente fondamentale[? Specificazione insensata: difficile non implica inutile] di chi si trova a gestire una realtà carismatica viva ma in declino è capire, possibilmente al momento giusto, che il processo più importante che deve attivare è creare, ritirandosi, spazi di libertà e di creatività che consentano l’emergere di nuove dinamiche e persone diverse da quelle da esse generate.

Sic! Non solo le premesse vengono ignorate, ma qui si afferma l’esatto opposto!

E saperle vedere nel più giovane dei figli che pascola il gregge fuori dalla casa, in un bambino di una piccola città di Giuda, in un fratello scartato e venduto come schiavo.

Ancora luoghi comuni ecclesiastici, come se negli scorsi articoli non spuntassero già come funghi.

Quando invece le classi dirigenti pensano, spesso in buona fede, di dover gestire loro stesse il cambiamento, finiscono quasi inevitabilmente per accentuare la malattia che vorrebbero curare.

Ciò nondimeno un controllo indiretto intendono mantenerlo. Il che, ripeto, cozza con le premesse. Logica…

Le realtà che fioriscono da moventi ideali sono di due tipologie: quelle che nascono fin dall’inizio come organizzazioni, e quelle che lo diventano dopo essere nate come movimento. Nelle prime, che abbiamo chiamato Organizzazioni a Movente Ideale (OMI), la fioritura e la durata dipendono decisamente dalla capacità di creare buone strutture, opere e organizzazioni robuste, agili, efficienti.

Il che farebbe subito venir meno, ripetiamo una volta di più, la loro caratteristica peculiare del movente. Se è la struttura che si ricrea a prescindere dalla prima spinta idealistica e ciò nonostante non fa perdere all’organizzazione la sua peculiarità, tanto vale dire che quello sia il nodo saliente, non certo la castroneria dell’ideale. Che qualsiasi imbonitore è in grado di imbastire.

Qui se il progetto dei fondatori non diventa “opera”, tutto termina con la generazione dei promotori. Per le realtà nate movimento, accade invece esattamente il contrario: il movimento carismatico declina se una volta diventato organizzazione non riesce a rinascere continuamente come movimento, rinnovando e smantellando con coraggio[?] le forme organizzative che ha generato, rimettendosi in cammino verso nuove terre[?].

Sicché se una cosa può essere se stessa e il suo contrario qualcosa non torna.

E già qui ritorna il nodo cruciale: nel primo articolo sul tema il buon Luigino parlava di tutt’altre questioni, qui è giunto a lidi totalmente differenti:

La bellezza della vita sociale dipende soprattutto dal gioco e dall’intreccio delle differenze. La terra non è bella solo per la varietà di farfalle e fiori. C’è molta bellezza generata dalle differenze nei modi e nelle forme di fare economia, impresa, banca. […] La vita economica e civile, essendo vita umana, ha un bisogno estremo di tutte le risorse dell’umano, anche delle sue motivazioni più profonde.

Quanta fatica per riempir pagine, quando basterebbe un editoriale coerente a saziare l’interesse dei lettori attenti.

 Anche in queste realtà arriva il momento dell’organizzazione, ma, se si bloccano in questa fase, la forza profetica del carisma si attenua molto, e in certi casi scompare. La vitalità profetica di un movimento carismatico sta nel generare molte OMI, senza però diventare esso stesso una OMI – perché in questo caso la Organizzazione divora il Movente Ideale.

Che stia bacchettando bonariamente CL et similia dopo averle idealmente descritte (o aver trascritto la loro ideologia, il che è possibile) mi sta facendo sorgere il serio dubbio…

Un movimento diventato organizzazione può conoscere una nuova primavera carismatica quando in qualche zona marginale del “regno” alcune minoranze creative iniziano a ricostituire le condizioni per rivivere lo stesso “miracolo” della prima fondazione del carisma: lo stesso entusiasmo, la stessa gioia, gli stessi frutti.

E degli ostici concorrenti, o della manodopera a basso costo. Dipende come la si guarda.

Il processo che porta queste minoranze a diventare maggioranza si chiama riforma

In quale universo? Riforma implica un cambio di schemi già predefiniti, senza necessariamente un cambio degli elementi attivi. Se le tesi di Lutero fossero state ascoltate, senza che i vertici cattolici  ci rimettessero, quella sarebbe stata una riforma. Solo storicamente in quel caso Riforma è divenuto simbolo di Scisma ed ergo di cambio di dirigenti, altrove non ha questo significato.

Più prosaicamente: confondere riforma con cambi di egemonia è un giochino linguistico “sporco” per far passare l’attuale situazione ecclesiastica per quello che non è. E si nota.

Pertanto la vera operazione necessaria a un rinnovamento di un movimento diventato organizzazione e che vuole tornare movimento, è la comprensione da parte dei dirigenti del bisogno di creare quelle condizioni di nuova libertà e innovazione che porteranno altri, non loro, a rilanciare una nuova stagione carismatica, e così tornare di nuovo movimento.

I Gesuiti e il Gesuitismo starebbero là a dimostrare esattamente il contrario, ma va bene…

La prima pre-condizione generale sta nel cercare di non accentuare la malattia mentre si cerca di curarla. [Ma dai?!…] Quando una realtà carismatica inizia ad avvertire un declino, i suoi responsabili cominciano naturalmente a pensare che la cura sia cambiare le strutture e lavorare sull’organizzazione stessa.

E così si universalizza una prassi recente sul canovaccio del neoliberismo e (in minor misura) del keynesismo.

Così, per ridurre il peso di una organizzazione che nel tempo è cresciuta troppo (a causa delle patologie auto-immuni che abbiamo discusso nelle domeniche precedenti), si continua a lavorare e a concentrare energie sugli aspetti organizzativi.

Perché giustamente si può far salire il derelitto ai vertici ma i vertici non si devono toccare…

Ma se guardiamo la storia e il presente dei movimenti e delle comunità carismatiche, ci accorgiamo che le crisi dipendono da un problema di “domanda” (non avere più persone attratte dal carisma) che è stato generato anni addietro da errori di “offerta” (troppa struttura, poca creatività).

E qui andiamo per punti:

Primo: se accettiamo l’identificazione tra economia e movimento religioso è cinico, crudele, ipocrita e falso affermare che le persone non siano attratte per via di questo ghost che è il carisma. Anzitutto perché uno di solito non si sceglie un posto di lavoro perché gli piacciono i discorsoni del principale ma per campare! Mica tutti possono andare a lavorare allo Studio Ghibli

Secondo: un punto per il furto appena appena velato dell’idea marxiana della sovrapproduzione, peccato che non abbia rubato tutto il depredabile. Perché giungere alla conclusione che il denaro (e quindi il potere) sta sempre da una parte sarebbe un tantino destabilizzante per lor signori lettori.

Terzo: sulla creatività scriveva già a suo tempo Gramsci:

Luigi Einaudi ha raccolto in volume i saggi pubblicati in questi anni di crisi. Uno dei motivi su cui l’Einaudi ritorna più spesso è questo: che dalla crisi si uscirà quando l’inventiva degli uomini avrà ripreso un certo slancio. Non pare che l’affermazione sia esatta da nessun punto di vista. È certo che il periodo di sviluppo delle forze economiche è stato caratterizzato anche dalle invenzioni, ma è esatto che in questo ultimo periodo le invenzioni siano state meno essenziali e anche meno numerose? Non pare: si può dire, tutt’al più, che hanno colpito meno le immaginazioni, appunto perché precedute da un periodo di tipo simile, ma più originale. Tutto il processo di razionalizzazione non è che un processo di «inventività», di applicazioni di nuovi ritrovati tecnici e organizzativi. Pare che l’Einaudi intenda per invenzioni solo quelle che portano all’introduzione di nuovi tipi di merci, ma anche da questo punto di vista forse l’affermazione non è esatta. In realtà però le invenzioni essenziali sono quelle che determinano una diminuzione dei costi, quindi allargano i mercati di consumo, unificano sempre più vaste masse umane ecc.; da questo punto di vista quale periodo è stato più «inventivo» di quello della razionalizzazione? Anche troppo inventivo, a quanto pare, fino all’«invenzione» della vendita a rate e della creazione artificiosa di nuovi bisogni nel consumo popolare. La verità è che pare quasi impossibile creare «bisogni» nuovi essenziali da soddisfare, con nuove industrie completamente originali, tali da determinare un nuovo periodo di civiltà economica corrispondente a quello dello sviluppo della grande industria. Oppure questi «bisogni» sono propri di strati della popolazione socialmente non essenziali e il cui diffondersi sarebbe morboso (cfr l’invenzione della «seta artificiale» che soddisfa il bisogno di un lusso apparente dei ceti medio borghesi).

(Quaderno 15 (II), § (26); Noterelle di economia politica)

Il che farebbe derubricare tutto il discorso dal primo articolo come una scempiaggine, ma noi continuiamo a leggere in attesa di qualche ravvedimento.

Quando il movimento si sviluppa, le esigenze di rafforzamento delle strutture dell’organizzazione allontanano le persone più creative dalle periferie, e così perdono contatto con la gente e con le vere dinamiche del proprio tempo, perché sempre più concentrati verso l’interno dell’organizzazione. Così, di fronte alla richiesta di cambiamento, il governo e le strutture rispondono continuando a guardarsi dentro, creando nuove commissioni, nuovi uffici, cioè continuando a guardare alle strutture.

Ed infatti l’universalizza del liberismo e del neoliberismo continua imperterrita. Senza alcuna analisi critica, niente.

Ma il ridicolo si raggiunge con tale paragone:

È come se – per usare una metafora, imperfetta ma forse non inutile – un’impresa produttrice di automobili in crisi di vendite, per ripartire si concentrasse solo sul lato dell’offerta: licenziando, snellendo l’organizzazione, accorpando, chiudendo filiali.

Nessun intento di imbonimento basato su fatti recenti, assolutamente! (chi era che stava con Berlusconi, Confindustria e Marchionne a suo tempo… ? Fatemi ricordare…)

Se il problema è però principalmente sul lato della domanda – i modelli di auto che offre oggi, che l’avevano fatta crescere ieri, non incontrano più i gusti dei consumatori – la vera sfida sta nell’investire risorse per pensare nuovi modelli, che inculturino nel “mercato” presente la mission e la tradizione di quella impresa. Se, invece, si liberano persone dagli uffici amministrativi per spostarli nel commerciale senza rinnovare i “modelli”, i primi a sperimentare frustrazione e insuccesso sono proprio gli addetti alle vendite, che si ritrovano a offrire auto nelle quali non credono più. [Geniale: come se credere in un oggetto sia la precondizione per cui esso venga venduto!]

La possibilità che il mercato sia saturo proprio a causa di questa spasmodica ricerca di profitto non viene nemmeno minimamente presa in considerazione. E come potrebbero…

Un tipico errore che si commette durante queste fasi di passaggio è, infatti, pensare che la poca attrattività del messaggio riguardi solo l’esterno della comunità, e non sia già diffusa e profonda anche all’interno di essa. Non si comprende che senza raccontarsi nuove e antiche storie che riaccendano innanzitutto i propri membri e le proprie vocazioni, non si sarà mai più capaci di attrarre nuove persone.

– “Signore abbiamo venduto tutte le auto e non c’è più nessuno a cui venderle, i prestiti per la produzione si fanno pressanti e si rischia seriamente la bancarotta! I nostri distributori ci vogliono abbandonare!!!”

– “Nessuna paura, basterà attrarre nuove menti! E lo farò così, mandate questo messaggio alla sezioni marketing e gestione del personale: la nostra è una grande azienda, mio nonno l’aveva costruita con le sue mani. Lavorava in un capannone e costruiva semplici trattori nel difficile Dopoguerra. Lui ce l’ha fatta con le sue mani e noi…”

– “Ma capo, questo come ci permetterà di pagare i debiti senza andare in perdita?!”

– “Sì, ecco… eppure su Avvenire giuravano che avrebbe funzionato”

Molte nuove “evangelizzazioni” accadono quando nel raccontare agli altri la buona novella, riusciamo nuovamente e diversamente a risentirla viva anche in noi. È così che rinasce una nuova-antica storia d’amore, un nuovo eros, nuovi desideri, nuova generatività, nuovi bambini.

Salvo poi svegliarsi ed accorgersi che le storie son solo storie. O che discorsi del genere si fanno solo nell’euforia anarchica della crescita (cui ciclicamente segue lo sconforto della crisi e la stagnazione)…

Durante le crisi le energie morali sono scarse, ed è cruciale scegliere su quali priorità investirle: sbagliare l’ordine temporale e gerarchico degli interventi è fatale. Perché se si cambiano le strutture prima di ripensare la mission del carisma, il rischio concreto è di sbagliare la direzione del cambiamento.

Per esempio compiendo inaudite forme di socializzazione dei profitti o democratizzando la struttura in barba ai carismi e alle favolette.

I movimenti e le comunità carismatiche non vendono automobili

Eppure dalle premesse tutto portava a questa identificazione. Strano: è come se il buon Bruni volesse rimediare al danno negando ciò che prima affermava.

Il carisma allora può rifiorire solo tornando a incontrare le persone lungo le strade, dimenticando le proprie organizzazioni per occuparsi delle ferite e dei dolori degli uomini e delle donne di oggi, soprattutto dei più poveri – la distanza dai poveri è sempre il primo segno di crisi delle realtà carismatiche.

Che poi chissenefrega se la loro ideologia è una difesa dello status quo con un po’ di pietismo, n’est-ce-pas?

I “modelli” possono e devono essere rinnovati, perché il carisma non è l’automobile, ma è la casa automobilistica, che per vivere e crescere deve essere capace di rinnovarsi, di cambiare, di interpretare creativamente la propria missione nel tempo presente

Che poi non venda e fallisca son dati secondari, per sua stessa ammissione.

Dopo il grande diluvio, il libro della Genesi (cap. 11) ci narra la storia di Babele.

L’umanità salvata da Noè, invece di ascoltare il comando di Dio e disperdersi sulla faccia della terra, si fermò, costruì una fortezza, con una sola lingua, senza diversità.

Il fatto che sia il mito sulla nascita della varietà linguistica è secondario. D’altronde mica si può pretendere che i lettori del quotidiano vescovile abbiano conoscenze in campo biblico…

Dopo le grandi crisi arriva puntuale la tentazione di Babele: si ha paura, ci si difende, si tende a custodire la propria identità, si guarda dentro, si perde bio-diversità. La salvezza sta nella dispersione, nelle molte lingue, nel muoversi senza indugio verso nuove terre.

E nel ripetere ciclicamente ciò che ha portato alla crisi. Un genio!

1 pensiero su “Ancora su Avvenire e l’economia o “Ma non si parlava di soldi?”

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