I nipotini di Padre Bresciani e il cattolicesimo eterno

Per la seconda volta mi capita di commentare Avvenire. Non so se perché sono io troppo puntiglioso o pure perché l’apologetica malamente travestita da trattazione storico-scientifica mi fa davvero uscire dai gangli.

Non che magari nell’articolo ci sia qualcosa di corretto, anzi: c’è una buona probabilità che ci possa essere, solo che dato che non essendo io onnisciente non posso sapere fino a che punto!

Perciò, in questo scritto mi limiterò a sottolineare ciò che alla luce dei miei studi (amatoriali ma pur sempre studi) è manifestamente falso. O se non altro dubbio.

Di seguito l’articolo, il mio commento in blu.

Nella storia dell’umanità l’homo religiosus assume una modalità specifica di esistenza, che si esprime in diverse forme religiose e culturali. Lo si riconosce dal suo stile di vita: crede all’esistenza di una realtà assoluta che trascende questo mondo e vive delle esperienze che, attraverso il sacro, lo mettono in relazione con questa Trascendenza. Rileviamo che egli crede all’origine sacra della vita e al senso dell’esistenza umana come partecipazione a un’Alterità. È anche un homo symbolicus, che coglie il linguaggio delle ierofanie, attraverso le quali il mondo gli rivela delle modalità che non sono evidenti di per se stesse.

Già da qui si può capire il perché del titolo. Per chi non avesse una buona capacità d’osservazione invece vedrò di rimediare: l’articolista in questione infatti cade in due tipi di fallacie che agiscono auto-rafforzandosi: lo sciovinismo descrittivo e l’etnomorfismo. L’etnomorfismo consiste nell’attribuire i nostri caratteri culturali a ciò che non ne ha, lo sciovinismo descrittivo consiste invece nel considerare il nostro punto di vista come l’unico degno di nota. E si può ben dire che in alcuni casi ne è la base (altre volte dipende da semplice ignoranza, mancanza di alternative ecc.). In questo caso vediamo l’utilizzo non giustificato di un linguaggio di stampo cattolico e di categorie cristiane per descrivere ambienti non cristiani, in un certo senso è una “cristianizzazione linguistica”: una riduzione dell’aspetto religioso umano alla sola sfera cristiana… per quanto romanticizzata. In effetti: perché realtà assoluta, perché Trascendenza? Inviterei l’articolista a leggersi qualche saggio di psicologia cognitiva (ad esempio “filosofia della violenza” ha una sezione che è un ottimo compendio degli ultimi studi in proposito) o qualche testo sciamanico dell’Asia Centrale per vedere quanto questi termini siano aleatori: più corretto sarebbe dire realtà pervasiva e totalmente altra o fantasmatica, solo che così non suona più molto cristiano…  

Le prime tombe che ci offrono una certezza della credenza in una sopravvivenza provengono da Qafzeh e da Skuhl, nel Vicino Oriente, grazie alla presenza di tracce di cibo e di utensili in prossimità degli scheletri: si tratta del 90000 a.C. A partire dall’80000, l’uomo di Neandertal moltiplica questi riti. Dal 35000, nel Paleolitico superiore, l’Homo sapiens sapiens applica un trattamento speciale al cadavere del defunto […] Nel V millennio sorge la dea. La scoperta da parte di Marija Gimbutas del sito di Achilleion in Tessaglia offre una visione della religione arcaica dell’Europa grazie alle numerose dee, tra le quali quella della vita e della morte.

Ora, vorrei far notare come già da questa breve descrizione l’aspetto trascendente parte perdersi, e con essa tutta l’efficacia della descrizione dell’homo religiosus generico. Infatti se la logica non mi inganna donare oggetti utili in questa vita per una possibile vita futura implica anzitutto che si ritiene che la prossima non sia diversa da questa. Ma solo un’estensione nel senso letterale del termine. In sintesi: niente di trascendente. Altra cosa da notare è l’assunzione come oggettiva di una sola ipotesi sull’origine delle religioni neolitiche: quello della Dea Madre. Banalmente: la cosa è disputata, e non sempre i miti indoeuropei avallano questa ipotesi.

Un grande passo avviene nella coscienza della sopravvivenza e dell’aldilà presso gli antichi Indoeuropei. Presso i neo-Ittiti dell’Asia Minore, le rappresentazioni del grappolo d’uva e della spiga costituiscono dei simboli escatologici che significano che l’anima umana sarà ricevuta nel mondo del dio della tempesta. Presso i Celti sono state trovate numerose tracce degli oggetti che facevano parte della vita del defunto: gioielli, armi e vasi, ma anche l’uovo rotto, segno della vita e del rinnovamento periodico della vita.

E fin qui, a che ne so, potrebbe essere tutto corretto…

Non c’è più tempo né spazio. È la dottrina escatologica dei druidi.

…Ma qui casca l’asino. Come può essere lo spazio-tempo congelato se a) i numerosi paradisi e inferni germanici rientrano nella temporalissima concezione cosmologica e cosmogonica mitica (ritenuta vera in questo mondo qua per chi se lo fosse dimenticato), di conseguenza b) come può esistere l’a-temporalità se tutto il mondo, anche concedendo che alcune parti restino “congelate”, finirà e ricomincerà nel Ragnarǫk (in questo caso come accennato nelle Profezie di Morrigan)?

Presso i Germani, il destino esprime il furore di vivere: onore, fama, reputazione, esistenza in ogni membro del clan (Sippe) di una forza sacra proveniente dal destino. I defunti continuano a vivere nella loro tomba, ma ritornano periodicamente tra i vivi. Hel, Halja è il soggiorno dei morti. La vita qui è triste, fatta eccezione per il Valhalla, soggiorno riservato dal dio Odino ai guerrieri caduti sul campo di battaglia. Essi bevono l’idromele sacro nel corso dei banchetti, che non hanno mai fine.

Anche qui c’è un errore macroscopico: che la vita nel Mondo di Mezzo sia ripetitiva e faticosa (non triste) è un luogo comune piuttosto diffuso presso gli antichi. Basti pensare ad Esiodo nelle Erga kai Hemerai, o ai miti della Mezzaluna Fertile sull’uomo costretto a lavorare per gli Immortali (di cui per altro il Bereshit ci offre un derivato diretto). La questione dello spirito vitalistico, senza ulteriormente infierire, mi pare solo un brutto strascico mal digerito di pangermanismo. Ricordo infatti che il Valhalla è solo uno dei possibili destini dell’anima, a fronte di altri non meno desiderabili (come molte cosmologie infatti anche i germani avevano più “paradisi” e più “inferni”), inoltre il ritorno ciclico dal mondo dei morti non è una sola caratteristica del folklore germanico, ma è pressoché condiviso quasi dappertutto: è  così che funziona il viaggio sciamanico – la Qamlaye – presso gli altaici. Inoltre può anche darsi che i morti restino sulla terra: presso gli indiani come demoni Preta, presso i germani come Elfi (Alfar), presso i latini come Lemuri ecc.

Tra le grandi religioni del Vicino Oriente antico, l’Egitto faraonico ha una visione molto ottimista dell’aldilà.

…Tranne quando la mortale anima muore sbranata dal dio coccodrillo Ammit. O fallisce le altre prove. O non riceve le giuste sepolture (altra cosa comune a tutti). O sbaglia strada e si ritrova “fuori dal mondo”, nel Duat. 

L’homo religiosus dell’Egitto faraonico viveva nella meraviglia: il Nilo è il dio della vegetazione.Ankh è il segno della vita, onnipresente e sacra. Per l’egizio, la vita umana non deve cessare con la morte.

E qui ripeto: il contraltare di tale assunto è che l’anima può cessare. 

La prima preoccupazione dell’egizio era la costruzione della sua tomba, la sua «casa d’eternità». Una seconda preoccupazione concerneva la conservazione del suo corpo grazie alla mummificazione.La prima preoccupazione dell’egizio era la costruzione della sua tomba, la sua «casa d’eternità». Una seconda preoccupazione concerneva la conservazione del suo corpo grazie alla mummificazione.

Perché appunto, l’anima non è poi così trascendentale. Al massimo è assimilabile ad un’ombra od uno spirito, ma è comunque (in senso lato) immanente. E da qui inizia la parte più scorretta di tutte: non ho davvero trovato nulla di salvabile nelle parole che seguono:

Nella religione di Zarathustra il destino umano è molto diverso: un’antropologia dualista oppone l’anima al corpo, che è considerato malvagio e da disprezzare, da cui il rito della scarnificazione del cadavere da parte degli avvoltoi per impedire di insozzare l’acqua e la terra.

Errore clamoroso. In pratica si confonda il culto mazdeo con l’interpretazione mal digerita di Agostino… ma del Manicheismo! In realtà, il disprezzo del corpo è più manichea, ma non in quanto il corpo sia malvagio in se (se non per la sua funzione passiva-strumentale di prigione per l’anima) ma solo perché nato da commistione della Luce con l’Oscurità. Allo stesso modo, ma con conclusioni opposte, il giudizio mazdeo: il mondo l’ha creato il dio Ahura Mazda e solo dopo l’arcidemone Angra Mainiyu l’ha corrotto, ergo il corpo non è in se malvagio perché la malvagità viene da altro. Ed ecco anche perché i mazdei non vedevano di buon occhio i manichei. Riguardo la scarnificazione la motivazione è un’altra: a) il corpo viene da una natura buone e purificatrice ed essa deve riprenderselo b) cremare il cadavere avrebbe corrotto l’elemento più puro di tutti, che per i mazdei è il fuoco (Athar).

Una corrente spiritualista – lontana eredità del pensiero indoeuropeo – dà grande importanza all’anima.

E ci risiamo con la solita litania…

 La vita è una scelta tra il bene e il male. La salvezza dell’uomo passa per un giudizio consecutivo alla morte, durante il passaggio del ponte di Chinvat, il ponte della separazione tra salvati e dannati, in conformità alla vita condotta dall’uomo sulla terra. Si tratta di una dottrina escatologica ottimista, che perdura ancora oggi tra i parsi dell’India e i guebri in Iran.

…Ottimista se si esclude tutta la storia del Giudizio Universale (Frashokereti) e tutti i racconti che lo precedono. Allo stesso modo il mito cristiano è ottimista solo se si presuppone una fine di quel genere. Ma a quanto pare l’articolista è uno che mal sopporta la complessità. 

Ora il nostro sguardo si volge all’Asia Centrale e all’Estremo Oriente, in modo da esaminare brevemente i testi dell’India, della Cina e del Tibet. Nell’India vedica, il sole appare come la sostanza del ringiovanimento e costituisce il prototipo del fuoco sacrificale. Nell’uomo ciò che sopravvive dopo la morte è l’essenza del suo essere, inserito in un prolungamento della durata legata al cosmo. I Brahmana sistematizzeranno questa nozione di durata dando al rito la forza di un oltrepassamento della morte.

E qui si raggiunge il ridicolo: anzitutto si depenna bellamente la fase Vedica e pre-Vedica, in cui Brahma, cui i Bhramani, NON c’era o era un concetto magico molto vago (come quello del Velo di Maya) e si era legai ancora a concetti di tipo sciamanico sui viaggi dell’anima, della quale, faccio notare, si sottolinea in particolare l’aspetto corporeo dato che le sue componenti sono nientemeno che i sensi!  

Il pensiero upanishadico strappa l’India al ritualismo brahmanico e conferisce all’atto umano una forza che porta i suoi frutti al di là della morte e presenta due cammini: il primo è la trasmigrazione, il ritorno in un corpo, il secondo è la strada degli dei, l’identificazione definitiva tra atman e Brahman.

Ovviamente questo è vero solo nella fase tardo-Vedica e appunto Brahmanica della religione indiana, in cui i concetti di Atman e brahman sono stati acquisiti e assimilati. Inoltre tali premesse valgono sono per i Brahmani dato che per le caste inferiori per smettere di trasmigrare basterebbe compiere correttamente i riti (Karman “azioni”)…

Nella sua reazione alla religione vedica e brahmanica, il Buddha nega l’esistenza dell’atman. Tuttavia non sopprime l’immortalità, ma afferma il nirvana, che è liberazione dalle rinascite e dalla morte, beatitudine per eccellenza, rinfrescarsi, felicità perfetta e salvezza.

E anche qui caliamo un velo pietoso, dato che a) si nota che parli solo rifacendosi a fonti Mahayaniche tarde, in cui per rendere chiaro il concetto di Nibbana (in Pali perché Gotama Siddhatta non parlava sanscrito) ci si rifaceva pesantemente a metafore brahmaniche b) viene ignorato che il Nibbana si può raggiungere anche in vita, per cui la fine della trasmigrazione non è il fine in se, ma un suo effetto.

Ritroviamo questa dottrina, leggermente modificata, presso i buddhisti del Tibet e della Cina.

Leggermente è un bell’eufemismo dato che né in Tibet né in Cina a) si parlava una lingua indoeuropea, ma solo sino-tibetane o al limite altaiche e austrasiatiche, donde l’intraducibilità di molti concetti buddhisti b) a peggiorare le cose il fatto che molti concetti religiosi che in India sono stati sviluppati in Cina e in Tibet sono stati trascurati, tanto da dover venire re-importati in un’altra forma (ma questo vale più per la Cina che per il Tibet). Per farvi più chiarezza sul buddhismo inviterei a leggere “Il Pensiero del Buddha” di Gombrich.

In questo immenso Paese, accanto al buddhismo esistono due religioni originarie: il taoismo e il confucianesimo, che sono anche filosofie e vie di saggezza.

Ovviamente depenniamo il fatto che il taoismo storico è solo in senso lato una religione, e ancor meno il confucianesimo. Se non vado errato, queste due filosofie si confondono tra loro e col buddhismo solo in epoca Tang… piuttosto tardi direi.

È all’inizio della nostra era che appare una religione taoista di salvezza, con le sue scuole, i suoi templi e il suo clero, che propone ai fedeli di condurli all’immortalità spiritualizzando il corpo: la loro ricerca è un’esaltazione della condizione umana primordiale

Idiozie: il clero taoista si ufficializza solo tardi, i templi vengono sistematizzati ancor più tardi. I primi maestri taoisti erano più vicini a monaci erranti. E soprattutto di tutto facevano che spiritualizzare il corpo: il fine era il non-sforzo o “Wu Wei” ergo vivere da dissoluti, nullafacenti e cinici di fronte ad un mondo che pensa di agire ma è mosso dalla non azione del Tao… tutto meno che materialismo.

Confucio instaura un umanesimo, ma richiede ai suoi adepti di rendere un culto ai defunti, in particolare agli antenati.

Re-instaurare il culto degli antenati è più corretto, dato che Confucio è anzitutto un conservatore e il culto degli antenati si tributava ben prima di lui. Anche se in forme che lui non avrebbe approvato.

Alla fine dell’era antica e nei primi secoli della nostra era si dispiegano due religioni dualiste e iniziatiche, che veicolano un’antropologia fondata su un’opposizione radicale tra il bene e il male, tra il corpo e lo spirito, cosa che conduce l’uomo all’obbligo di liberare l’anima dalla prigione del corpo. Queste due correnti sono l’orfismo e lo gnosticismo; quest’ultimo sfocia nel manicheismo.

Mi limito a correggere perché sennò mi si sente imprecare fino a Samarcanda: a) l’orfismo è alla base del pitagorismo, il pitagorismo è una base del platonismo, l platonismo e il neo-pitagorismo assieme all’orfismo platonizzato è alla base del neo-platonismo, il neo-platonismo è una delle fonti delle sette ebraiche eterodosse, il neo-platonismo e le sette ebraiche eterodosse sono alla base dello gnosticismo cristiano, il manicheismo ha come basi i culti ebraici eterodossi e il primo gnosticismo cristiano. b) i manichei non erano solo gnostici come non erano solo cristiani, solo zoroastraini o solo buddhisti, ma una via di mezzo tra tutte queste correnti.

Fondata da Mani sul mito iranico dei due regni, la sua religione concepisce l’uomo come un miscuglio di luce e di tenebre: la sua anima è una scintilla divina prigioniera della materia. Votato alla distruzione come nel mazdeismo, il corpo deve essere abbandonato alle tenebre, mentre l’anima, illuminata dalla gnosi, procede a una katharsis permanente. Alla morte, l’anima dell’eletto inizia la sua salita trionfale verso il regno della Luce. Coloro che hanno rifiutato il messaggio gnostico sono gettati nella massa dannata per l’eternità.

Approssimativamente corretto… peccato che sia qualche millennio dopo l’orfismo e non in contemporanea.

Nella credenza comune dei Greci, le anime dei morti discendono nell’Ade senza speranza di ritorno. Tuttavia, la tradizione dei pasti funebri contraddice l’idea dell’anima imprigionata per sempre nell’Ade. In Attica, nel VI secolo, le tombe più lussuose sono ornate con l’immagine del defunto idealizzato, rappresentato nella pienezza della forza e della bellezza, come se la morte gli avesse conferito una nuova giovinezza. A Roma la credenza più vecchia ammetteva che l’anima risieda nella tomba con il cadavere, da cui la protezione e la venerazione della tomba affinché il defunto vi resti in quiete.

Peccato che – di nuovo – la trascendenza vada a quel paese…

Dopo questo percorso attraverso le religioni preistoriche e le religioni d’Oriente e d’Occidente resta un ambito specifico da considerare: la sopravvivenza e l’immortalità nei tre monoteismi abramitici, nei quali lo storico delle religioni è messo a confronto con una dottrina rivelata, il che significa un nuovo apporto legato a un’ermeneutica teologica. In queste tre religioni siamo in presenza della fede dei credenti in un Dio unico, autore di una rivelazione che dirige la loro vita e che si trova consegnata in due libri sacri, la Bibbia e il Corano. Gli ebrei credevano primitivamente che il defunto risiedesse nella sua tomba, ma a questa visione è venuta a sovrapporsi l’idea di un soggiorno nello sheol, un luogo sotterraneo e oscuro.

Nell’Antico Testamento la dottrina della resurrezione appare tardi, in Giobbe, nei Salmi, in Ezechiele, in Daniele e in modo preciso nel secondo libro dei martiri d’Israele. Nel Libro della Sapienza, scritto in greco verso il 50 a.C., si trova il vocabolo aphtarsis, «immortalità».

Nel Nuovo Testamento Gesù afferma che coloro che entreranno nel Regno riceveranno in cambio un’esistenza di pace e di felicità (Mc 1,15). In Fil 1,19-26 Paolo afferma la sua certezza di non essere mai separato da Cristo. La dottrina del Nuovo Testamento sull’immortalità e sulla resurrezione dei cristiani sulla scia del Cristo resuscitato e glorioso fonda ormai da venti secoli l’escatologia cristiana. Secondo il Corano, l’annuncio del giorno del giudizio si situa all’inizio della predicazione di Muhammad e si pone nella prospettiva della resurrezione, che sarà la riunione della razza adamitica. I credenti saranno chiamati a gioire del paradiso, mentre gli empi saranno condannati ai tormenti.

In conclusione constatiamo che l’homo religiosus, dalla Preistoria fino alla nostra epoca, ha lungamente riflettuto sul suo destino finale. Ha inventato una serie notevole di riti funebri per accompagnare la sua credenza in una sopravvivenza e ha fatto costruire la sua «casa d’eternità» come l’egizio dell’epoca faraonica.

Già: tutto ci ha portato a questo punto, tutto il passato è buono. Anche quello che rivela qualcosa di scomodo (un’anima fantasmatica immanente e potenzialmente quasi-corporea?), totalmente contrario alle aspettative (il cristianesimo ha plagiato dal mazdeismo?), o semplicemente quello su cui qualche secolo fa sputavamo bellamente (che si diceva dei pagani in proposito?)… ma tutto fa brodo per l’anima candida abbastanza debole da necessitare di simili litanie e pappe pronte.

L’homo christianus, ancorato alla sua fede nel Cristo resuscitato e glorioso, vive nella speranza di una felicità eterna e della resurrezione nell’«ultimo giorno». Tornato alla fede cristiana dei suoi anni giovanili, il grande storico delle religioni Franz Cumont intitolò il suo ultimo libro Lux perpetua.

Ed è così che l’apologetica si manifesta. Il discorso si chiude come si apre: con una grettezza inusitata. E pensare che simili articolacci fino a cento anni fa sarebbero stati scritti con più cura. ma che si può pretendere da dei Nipotini di Padre Bresciani?

2 pensieri su “I nipotini di Padre Bresciani e il cattolicesimo eterno

  1. Caffe

    Il bello, o forse il tragico, è che nessuno potrà mai provare scientificamente, una sola delle ipotesi escogitate in diversi millenni, da moltitudini di pensatori, sul destino ultimo di ogni essere umano: come invidio quelli che hanno una fede…

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