Buddhismo e immaginario occidentale

Premessa: un articolo non è fatto per forza per essere letto tutto in una volta. Si può anche riprenderlo più volte, leggerlo un pò alla volta, sempre ovviamente se rimane la curiosità e la voglia. Vista la lunga mole di quanto ho scritto, che dal mio punto di vista era richiesto dalla complessità dell’argomento trattato, io stesso penso che sarebbe un suicidio leggerselo tutto in una volta. Quindi ognuno si regoli come meglio preferisce nella lettura di questo articolo. Sempre, ovviamente, se ne prova la voglia e l’interesse.

Il recente articolo di Don Marcello Stanzione sul buddhismo mi ha fatto riflettere di nuovo su una cosa, ovvero su come l’immaginario occidentale sia spesso un filtro cognitivo che rende quasi impossibile comprendere davvero lo spirito di questa “religione”. Senza uno studio sincero, che vada ben oltre la semplice curiosità o erudizione, è davvero difficile comprendere lo spirito dell’oriente e delle sue religioni e filosofie. Ancor più tempo si perde quando, come Don Stanzione, si avvicina questa religione con lo spirito e le intenzioni di un “eresiologo”, cioè di qualcuno interessato a informarsi solo con lo scopo di poterne trovare i difetti necessari per una campagna di discredito. Così come un Padre della Chiesa dei primi secoli scriveva cose errate e superficiali circa il reale spirito e contenuto di quelle che lui definiva “eresie”, allo stesso modo un simile lavoro è quello fatto da parte di Don Marcello Stanzione. Non che lui possa fare di meglio, anche volendo. La comprensione delle cose si dischiude solo quando siamo sinceramente interessati a qualcosa. La comprensione, a differenza della conoscenza esteriore delle cose, non ammette imbrogli.

Ringrazio ad ogni modo Don Marcello Stanzione. Il suo articolo, per quanto viziato dall’interesse personale di chi deve rendere poco appetibile un prodotto altrui per garantire la vendita del proprio (perdonatemi, ma per me un apologeta non è molto differente da un mercante insistente, nelle intenzioni e nel metodo per me non sono affatto differenti), è perlomeno serio e informato. Per una volta sul sito di Pontifex ci è risparmiato il ridicolo spettacolo di chi scrive “cazzate” (quando una parola forte ci vuole, ci vuole) come che il buddhismo sia una dottrina “diabolica” (come sostenuto da don Davide Pagliarani, lefebvriano, il quale ha la simpatica abitudine di usare la parola “diabolico” a random e con assai poca parsimonia, come ci ricorda proprio oggi su Pontifex definendo “diabolico” il preservativo… chi è interessato può rispolverare questo vecchio articolo, “I culti orientali e il buddismo nel particolare sono pericolosi e satanici” ), che le tecniche di meditazione orientale provocano possessioni demoniache (vedasi certi vecchi articoli di Pontifex ), o persino chi sostiene -tra gli utenti di Pontifex- che Buddha fosse niente di meno che il “Principe di questo mondo” in persona (Satana, per chi non fosse informato sul significato di certi “titoli” usati tra cristiani).

Don Marcello Stanzione almeno ci grazia dal dover leggere simili manifestazioni di offensiva ignoranza. Non posso anzi dire che “la mente spirituale” che sta dietro la direzione del sito di Pontifex sia ignorante in questa materia orientale (spero che non mi deluda uscendosene pure lui un giorno dicendo, come i suoi colleghi, che Buddha è Satana o che meditare provoca possessioni del Maligno)… Tuttavia ovviamente la mente di chi ha scritto questo articolo, Buddhismo e Cristianesimo , è una mente che cerca di comprendere (solo al fine di criticare, quindi già questo rende poco inclini ad una sincera comprensione) attraverso il filtro della propria cultura occidentale e della propria religione.

Inutile dire che per comprendere il prodotto di un’altra cultura occorre pensare per un attimo secondo la logica e il modo di vedere le cose che è proprio di quella cultura, e non della nostra. Tale mancanza di comprensione non è biasimevole, ma con questo articolo vorrei dissipare alcune sbagliate opinioni che hanno di solito gli occidentali che guardano alle religioni orientali mantenendo molta distanza, magari per paura di essere infettati dal “Maligno”, come immagino sia per molti di Pontifex…

1. L’idea che il buddhismo sia una “depressiva” religione che sfocia nel nichilismo e nel rifiuto del mondo, quindi anche nell’inazione in esso.

Per iniziare a chiarire questa cosa, posto un link ad uno “strumento preliminare” che ci servirà per “illuminare” la situazione… http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/zen/parabolabue.htm

Se avete cliccato sul link, ora state osservando quella che nello zen è conosciuta come la “parabola del bue”… Questa parabola pare risalire già ai tempi precedenti del taoismo, ma fu rielaborata e diffusa in giro soprattutto con la diffusione della dottrina zen. Simile al Liber Mutus degli alchimisti occidentali (o al perduto libro intitolato “L’Immagine”, opera muta fatta solo d’immagini che si dice avesse dipinto Mani, fondatore del manicheismo), questa è un opera muta, fatta solo di immagini in sequenza che illustrano le tappe del “sentiero” che percorre chi cerca la via dell’illuminazione e della realizzazione umana. Anche se appartiene all’immaginario taoista e zen, posso comunque confermare che questa parabola illustra le tappe di quello che è il sentiero di qualsiasi realizzazione di tipo mistico.

L’occidentale medio è abituato a pensare che la via professata dal buddhismo si fermi e si arresti per forza e soltanto a quello che possiamo osservare nella ottava immagine… l’estinzione, l’annullamento nell’Assoluto. Effettivamente questa è una possibilità contemplata dal buddhismo, ma specifichiamo che non è la regola. Dopo i “titoli di coda” di un malinconico finale nel quale molti si sono alzati e sono andati via pensando che il “film” sia finito (e tra questi possiamo mettere quasi tutti gli occidentali e anche Don Marcello Stanzione), scopriamo che il film non è ancora finito e che ci riserva un “finale aperto”, rappresentato dalle ultime due immagini.

L’ultima “verità” del buddhismo, spesso ignorata in occidente, è che l’illuminato scopre che nirvana e saṃsāra sono la stessa cosa. Ciò che cambia non è il luogo della manifestazione, quanto la coscienza con la quale viene percepita. Infatti il nirvana non è un “posto” (e infatti NON è un posto!) che viene raggiunto soltanto dopo la morte, ma è uno “stato d’essere” presente anche qui, adesso, ovviamente solo da chi si è risvegliato a tale verità. Il nirvana è sempre questo multiverso (ovviamente questo mondo visibile e dialettico non è l’unico mondo possibile contemplato dal buddhismo. Al pari di Giordano Bruno, il buddhismo sostiene l’idea dell’infinità dei mondi), ma cambia la prospettiva ( il “piano” di prospettiva ) attraverso il quale viene visto e vissuto.

L’accusa nichilistica che viene posta al buddhismo è in realtà l’accusa che si potrebbe porre nei confronti di tutti i misticismi (una via mistica di ritorno all’Assoluto è presente praticamente in quasi TUTTE le religioni), i quali pongono l’individuo come un essere che deve scoprire e fare ritorno all’Assoluto che è la sua vera origine e natura. Gli occidentali, abituati a percepirsi come individui e soprattutto come personalità, vedono quasi con orrore questa prospettiva, che richiama nella loro immaginazione l’idea di essere annullati e cancellati. Ricordo che da piccolissimo la mia prima razionale reazione nei confronti delle religioni orientali fu quella di chiedermi “ma cosa c’è di auspicabile e desiderabile in questa via?” Da bambino ovviamente la mia percezione di “realizzazione massima dell’essere umano” era percepita come “la possibilità di esperire all’infinito l’esistenza, e di non venire mai meno”. Tutti noi vorremmo vivere per sempre, essere sempre giovani, esperire per sempre il mondo, stare sempre insieme a ciò che ci piace e a chi ci piace. Quindi abbastanza ovviamente per ogni bambino il massimo della realizzazione e della perfezione possibile è potere realizzare quanto detto sopra. L’idea dell’estinzione come forma di realizzazione è quanto di più opposto un bambino, o anche un adulto di buon senso, possa auspicare. Quindi apparentemente l’ideale e l’obiettivo del buddhismo, dell’induismo e della maggior parte delle forme di misticismo è quanto di meno desiderabile possa apparire alla mente di un bambino quale ero io allora. Da allora la mia comprensione delle religioni orientali è completamente cambiata, ma mi rendo conto che molti occidentali sono ancora spaventati dall’impressione che il nirvana sia un deprimente “cancellarsi” dal ciclo dell’esistenza. E non cambia nemmeno il fatto di sostituire il nirvana con Dio, come sottolineato da Don Stanzione. In tutta sincerità, nemmeno l’idea di essere assorbiti nella “pienezza di Dio” è molto attraente. A me trasmette quasi l’immagine di Dio che infila una cannuccia nel mio cervello per bere e far scomparire tutta la mia individualità, il mio pensiero, la mia consapevolezza di esistere. No grazie, non mi piace l’idea di annullarmi nell’altro, nemmeno se si tratta del sommo oggetto del mio amore. Anche se l’amore spinge l’innamorato fino quasi al desiderio dell’annullamento e della fusione con l’altro, questo desiderio, almeno in me, si spinge fino al desiderio del “quasi” annegare, senza arrivarci però mai davvero. Diciamo che il bello del gioco consiste proprio in quel sommo “quasi”.

Per rintracciare quindi la vera natura e ragione del nirvana, dobbiamo rintracciare il pensiero originale del Buddha. Siddharta Gautama fu per tutta la vita un pragmatico, una persona con i piedi per terra, non un mistico vittimista adoratore della macerazione e dell’eremitaggio, non un masochista disprezzatore della carne e della materia in nome di qualche moralismo o di qualche assurdo divieto divino. Egli fu principe, e visse nelle gioie del lusso per gran parte della sua giovinezza. Egli stesso ebbe ad ammettere che se queste gioie potessero essere eterne, se la bellezza non sfiorisse mai, se la giovinezza non finisse mai e se non esistessero dolori, malattie e morte, egli avrebbe volentieri continuato a goderne. Ma la consapevolezza che tutto prima o poi finisce, e che fuori dal suo palazzo incantato ci fossero anche le realtà inevitabili del dolore, della sofferenza, della vecchiaia, della malattia e della morte, lo spinse al punto di indagare e di non avere pace finchè non avesse comprese le ragioni e trovata una spiegazione e soluzione. Molti davanti alla consapevolezza dell’inevitabile cercano di fuggire, cercano di dimenticarsene e di non pensarci fino a quando non arriva l’inevitabile momento. Alle scuole superiori ho fatto una tesi sull’argomento intitolata “il male di vivere”, e la mia tesi consisteva appunto nel sostenere che tutto quello che fa l’uomo durante la vita, tutto ciò che è legato alle arti e all’intrattenimento, è il necessario bisogno dell’uomo di distrarsi dalla consapevolezza ultima, il sapere e ricordarci che stiamo morendo e invecchiando ad ogni respiro, che prima o poi moriremo, unica inevitabile certezza dell’esistenza. L’uomo cerca di non pensarci, o di pensarci il meno possibile. Ma Siddharta Gautama non ci riusciva, questa consapevolezza, questa ingiustizia lo riempiva di dolore. Quindi partì alla ricerca di una risposta, e di una soluzione. E si dice che la trovò, almeno secondo le credenze del buddhismo.

Se il nirvana fosse solo liberazione dalle rinascite per sprofondare in un buio nulla, credete che un uomo pragmatico come Siddharta si sarebbe sentito soddisfatto? Buddha non era un santo cristiano, uno che trova gioia e compimento nel dolore, nella macerazione della carne e nella rinuncia. Se il nirvana trovato fosse soltanto questo, una volta realizzato non se ne sarebbe andato in giro con quel sereno sorriso che è stato tramandato dalle statue. Le statue del Buddha non sono solcate di lacrime come quelle dei cristiani, ed i suoi seguaci non sono tristi figuri che meditano con distaccata malinconia sulla mancanza di senso e di scopo di tutte le cose.

Cos’è il nirvana non è facilmente comunicabile, ma dovremmo anche essere in grado di capire che non è un cieco nulla, il buio di una tomba senza ritorno. La sua natura però è di difficile definizione, e infatti tutte le realizzazioni mistiche si sono sempre dovute esprimere e arrivare fino a noi con il linguaggio del paradosso. Quindi si dice che è vuoto e allo stesso tempo pieno. E’ il Sè, ma allo stesso tempo non vi è alcun Sè. Colui che lo raggiunge non è più, ma in realtà nessuno esiste veramente più di lui. E così via.

La somma realizzazione del nirvana secondo le credenze buddhiste, o dell’Assoluto secondo quasi tutta la totalità delle tradizioni mistiche del mondo, non è qualcosa che un Don Marcello Stanzione può arrivare a comprendere in un paio di serate in cui è impegnato a trovare “buchi” in questa dottrina per poterla fare passare a tutti i costi come sbagliata o inferiore al cattolicesimo romano.

Per citare un certo tizio di un certo film con in mano certe pillole rosse e alcune blu: nessuno che ha raggiunto il nirvana può descrivere il nirvana e come è realmente il mondo ad uno che non lo ha raggiunto. Ecco perchè il Buddha poteva solo dare una pungolata nel sedere ai suoi discepoli indicando la via, e non cosa c’è al di là della via  (e sarebbe stato dannoso farlo! Avrebbe solo spinto la gente a fantasticarci sopra senza muoversi per raggiungerlo e sperimentarlo) Che se fosse stata una conoscenza comunicabile, allora Buddha avrebbe aperto delle scuole e lo avrebbe scritto sulle lavagne, allo stesso modo di come si insegna l’algebra o il teorema di Pitagora. E lo stesso avrebbero fatto i mistici di tutte le altre tradizioni, che invece similmente sono stati costretti ad esprimersi attraverso simboli, metafore e paradossi.

Ad ogni modo, l’annullamento nell’Assoluto è solo una possibilità sulla via. Gli alchimisti occidentali ne parlavano come di una grande tentazione al termine della fase denominata Albedo, una delle possibilità offerte a chi lo desidera: tornare a fondersi nell’Assoluto incondizionato: la goccia torna nell’oceano. Nel buddhismo questo è definito come nirvana statico, ed è essenzialmente il nirvana ricercato nelle scuole buddhiste del Piccolo Veicolo o Hinayana. Nelle immagini della parabola del bue, queste persone si fermano virtualmente all’ottava immagine.

Al nirvana statico si contrappone il concetto di nirvana non-dimorante del Grande Veicolo o Mahayana. Chi segue questa via dopo la morte, sempre ovviamente se ha raggiunto l’illuminazione, non si fonde nell’Assoluto, continua ad avere manifestazione nel mondo, ma allo stesso tempo non si può più dire che ne faccia parte. Per lui samsara e nirvana sono diventati la stessa via. Quando egli poteva scegliere di fondersi con l’Assoluto, ha deciso di “fare un passo indietro”, si è voltato indietro, di nuovo verso il mondo, decidendo di tornarvi per risvegliare e istruire altre coscienze, che forse quando si sveglieranno decideranno di fare altrettanto, creando virtualmente una catena che non finirà mai. Non è una goccia che ha cessato di essere tale tornando nell’Oceano, ma non è neppure più una semplice goccia… è una goccia che sa di essere l’Oceano e che quindi ne manifesta la natura. Molti diranno “bella roba, quindi è una goccia che si ritrova ad essere di nuovo goccia, al punto di partenza”. Ma in realtà tornare al punto di partenza dopo un lungo viaggio è molto diverso da chi è rimasto fermo al punto di partenza senza aver intrappreso nessun viaggio, questo è il punto, e questo è il mistero che non può essere comunicato. Ed è questo grande mistero, l’ultimo paradosso, che viene comunicato solo nelle ultime due immagini della parabola del bue, la nona e decima immagine.

Quindi è vero che il vuoto e il ritorno all’Assoluto sono una possibilità sul cammino, ma non sono per forza il capitolo conclusivo… Proprio quando il film sembra essere giunto alla fine, ecco che il seguito viene annunciato. E in fondo, se uno ci riflette, può davvero un Buddha, che è senza ego e pieno di compassione per tutti gli esseri, consapevole del legame che unisce tutti gli esseri, può egli dire egoisticamente “ok, io me ne vado nella beatitudine, tanti saluti a tutti gli altri!” ? Quasi come in una domanda retorica, la risposta è quasi scontata: egli si volge di nuovo verso i mondi del divenire.

Questo risponde anche circa un’altra questione sul buddhismo: l’accusa che sia una religione dell’inazione nel mondo. Non è affatto vero. Il buddhismo non è fatto solo di meditazione e ascesi, ma anche di compassione e azione nel mondo. Esistono tantissime organizzazioni umanitarie di ispirazione buddhista. Il distacco dal mondo propugnato dal buddhismo è un distacco di natura dell’ego, esso non impedisce di agire nel mondo. L’azione nel mondo decondizionata dall’ego è anche conosciuta nell’induismo come Karma Yoga (vedasi la Bhagavad Gita) o nel taoismo come Wu-Wei, agire tramite il non-agire. Tradotto all’occidentale, significa agire (e non significa quindi la non azione letteralmente intesa) ma senza il desiderio dell’ego di provare soddisfazione o attaccamento per i frutti delle sue azioni. Questa è l’azione dei veri illuminati, la quale è “come una lepre che corre sulla neve senza lasciare impronte”. L’illuminato che soccorre un malato non si sente buono e non si vanta della propria azione, nemmeno nel silenzio del proprio io. Anche se molti probabilmente risponderanno di non essere così, si illudono. Chiunque abbia ancora un ego nasconde nel proprio profondo un fariseo che aiuta e soccorre il prossimo solo per la soddisfazione di vantarsi come buono o illuminato. Qualsiasi azione compiuta da un ego, anche la più “altruistica”, nasconde una traccia di egoismo, per quanto “raffinata” possa essere. Al massimo ci è concesso di distinguere tra “egoismo grezzo” ed “egoismo altruistico”.

Quindi un’ altra affermazione sbagliata fatta da Don Stanzione è che in oriente la personalità e l’individuo sono considerati la stessa cosa. E’ esattamente il contrario. La personalità (composta di “aggregati” quali il corpo fisico, il “corpo” delle emozioni e il “corpo” del pensiero) è l’inevitabile strumento per manifestarsi nei mondi, anche per un Buddha. Altra cosa, e assolutamente non necessaria, è invece l’illusione dell’io, la sensazione illusoria dell’ego (Ahaṃkāra), l’erronea identificazione della coscienza con i suoi strumenti di manifestazione. Quando Siddharta ha realizzato l’illuminazione, non è caduto in coma come un ebete essere privo di cervello, di pensiero e di sentimento… non è mica diventato un ceppo di legno con la faccia così , che sarebbe l’ovvio risultato del non avere più la mente e gli altri aggregati. Egli invece ha continuato ad esprimersi come un essere umano, a parlare, ad avere sentimenti, e a pensare. E’ svanita solo l’illusione dell’io, ma la coscienza e tutti i suoi strumenti di manifestazione e interazione necessari a interagire in questo mondo (un corpo e una mente) sono rimasti.

Questo è alla base di un’altra profonda incomprensione tra occidente e oriente. L’uomo occidentale è abituato a identificare la coscienza nell’unico modo in cui riesce ad esperirla: all’interno dell’esperienza dell’ego e della personalità, nel suo stato di zombie in cui crede di avere un “io” e di essere “sveglio” e “libero” (ma per esperienza personale posso dire che questo “normale” stato è molto più simile a quello di una macchina automatizzata… basta prendere improvvisamente consapevolezza dei nostri pensieri durante un momento di dormiveglia per renderci conto del fatto che noi NON siamo minimamente la nostra attività del pensiero, la quale perpetua continuamente e meccanicamente la propria attività, anche quando noi non ci siamo… è sconvolgente accorgersene. Non pensarlo in base ad una teoria filosofica, ma rendersene davvero conto in prima persona!) Identificando la sua coscienza con l’ego e con la propria personalità, ovviamente l’occidentale è portato a pensare che qualsiasi fine dell’attività inutile del pensiero (la mente dovrebbe essere uno STRUMENTO utilizzato dal proprietario solo quando necessario al proprietario, non un computer perennemente acceso che ha finito con il diventare l’utilizzatore del proprietario!) o dell’ego corrisponda alla fine della coscienza. Ecco perchè l’occidentale percepisce l’idea della morte dell’io o del nirvana come annichilamento, fine di ogni cosa, il nulla e il buio più totale. E per l’occidentale è giusto dire che sia così, perchè se egli pensa di essere solo il proprio ego… beh, non rimane ego nel nirvana, quindi dal suo punto di vista è giusto dire che il nirvana è il nulla assoluto… per lui. Allo stesso modo all’occidentale è sbagliato parlare di reincarnazione. La personalità, l’io, non si reincarna. Esso muore dopo la morte, o poco dopo la morte, come una ruota alimentata da corrente elettrica che continua a girare per inerzia “nell’aldilà” per un certo periodo anche dopo che si è staccata l’alimentazione. A reincarnasi non è l’io, non è l’ego, non è il tal dei tali con il tal nome e cognome, ma la coscienza.

Ovviamente la comprensione della coscienza, dell’illusione dell’io e della natura della mente non identificata è qualcosa che sfugge alla maggior parte degli occidentali e dei cristiani, molti dei quali credono ancora che l’anima possa addirittura essere “venduta” al diavolo, come un oggetto da arredamento separato da noi che il diavolo può usare per arredare il suo studio o la sua scrivania (mi sono sempre chiesto il diavolo cosa possa farci di interessante con un’ anima… ci aggiusta il tavolo traballante?). Quindi mi viene un pò da sorridere quando un prete cattolico sorride delle dottrine orientali, sedendosi in cattedra per istruirci riguardo a queste “ridicole superstizioni orientali”.

In realtà per spiegare bene il buddhismo o qualsiasi tradizione mistica orientale od occidentale (il buddhismo non è l’unica “dottrina del risveglio”, ma è sicuramente quella più famosa e pragmatica, soprattutto nello zen) bisognerebbe demolire secoli di falsa rappresentazione di sè, del concetto e della relazione tra l’io, i suoi aggregati, la mente e la coscienza. Senza la fase preliminare del “conosci te stesso” non è possibile parlare di buddhismo, di nirvana, di wu-wei e di qualsiasi altra religione e filosofia orientale.

L’occidente dopo il declino delle religioni misteriche ha completamente smesso di incitare le masse al “conosci te stesso”, perchè la salvezza viene data “per fede”… basta aver fede, essere carini con il prossimo, e il paradiso è in omaggio per tutti. Nessun lavoro su se stessi è richiesto.

Don Stanzione rimprovera al buddhismo e alle religioni orientali il fatto di essere religioni nella quale ci si deve salvare con le proprie mani, opponendo ad esso il cattolicesimo, nella quale si è salvati grazie all’aiuto di Cristo che chiede solo passiva fede e bonarietà generale.

Io però potrei obiettare la stessa cosa alla religione cristiana. Dal mio punto di vista, se non si è fatto un autentico lavoro di cambiamento su di sè, serve a poco essere “salvati” da un altro. Essere salvati dalla “Caduta” da qualcun altro che non siamo noi stessi, significa solo predisporsi alla prossima inevitabile “caduta”. Se non si era perfetti in questo mondo, forse lo si può essere nell’altro? Cosa cambia? Riempi il “paradiso” di soggetti egoisti, pieni di astio per questo o quello, invidiosi, ipocriti, insomma pieni di tutte le normali caratteristiche umane (sì, le stesse che ha inevitabilmente qualsiasi essere umano egoico)… per quanto tempo il “paradiso” resterà “paradiso”? Quanti cristiani salvati “per fede” sono davvero e sinceramente dei Gandhi, delle Madre Teresa di Calcutta, dei Martin Luther King, dei Gesù Cristo? Sicuramente pochi tra i milioni di cristiani “salvati per fede”… Quindi un “paradiso” così, una umanità così, prima poi cadrà di nuovo… prima o poi qualcuno di loro manifesterà di nuovo i germi dell’egoismo privo di altruismo, del pregiudizio, dell’invidia e di tutto il resto. Non si regala una busta piena di cibo a chi ha fame. Gli si insegna magari a pescare, così non avrà più di nuovo fame. E’ inutile che qualcuno arrivi, prenda l’umanità corrotta, e la sposti in un nuovo posto con l’etichetta “paradiso”. Se quella umanità non ha fatto nessun lavoro di crescita interiore (che non consiste solo nel buonismo etico, nell’ego che si gratifica nell’idea di essere “buono”), l’inferno in realtà se lo porterà dietro – e dentro- anche al paradiso. Non è importante il posto, ma ciò che abbiamo dentro. Serve a poco un posto pieno di soffici nuvolette chiamato paradiso. O il paradiso è nell’uomo, o puoi metterlo inutilmente dove ti pare, con lo stesso risultato fallimentare. In realtà il cristianesimo delle origini contemplava anche l’importanza del “conosci te stesso” e del lavoro su di sè sulla base dell’imitazione interiore di Cristo. Ma quel cristianesimo si è perso in gran parte, perchè alla gente piace molto di più l’idea di essere passivamente salvata “per fede”. Le “dottrine del risveglio” tramontano sempre in fretta, o con facilità, perchè l’uomo è pigro, non ha voglia di lavorare su se stesso e soprattutto vuole conservare il proprio ego. Le religioni del risveglio cedono sempre facilmente il passo alle religioni della pappa pronta e facile. Anche nel buddhismo è accaduto. L’amidismo ne è un esempio, un buddhismo per gente pigra che non vuole lavorare per salvarsi, e quindi prega di essere salvata da qualcun’altro, senza dover sudare e faticare.

Anche per questo il nirvana non è affatto un luogo. Il buddhismo, come tutte le religioni orientali e come nei misteri occidentali, ha una rappresentazione triplice dei mondi… un mondo materiale, uno sottile, fino alla sfera più alta e pura dell’essere. Ovviamente non è l’unico modo di rappresentare i mondi o “piani”. Poichè ciò che l’uomo schematizza nella sua mente è puramente astratto e soggettivo, esistono infiniti modi di rappresentare la struttura dell’universo. Ma il “nirvana” all’interno di tutto questo non si colloca come un posto a sè, come un luogo preciso simile al paradiso o al Dio cristiano. Solitamente, per rappresentare ciò, io uso questo ideogramma orientale 王che rappresenta in Cina e in Giappone il concetto di “re” o “Regno”. Potete immaginare i mondi come le tre linee orizzontali di questo ideogramma. Facciamo conto che siano il piano materiale (Nirmaṇakāya), sottile (Sambhogakaya) e causale (Dharmakaya), o quello che preferite immaginare. La condizione di “nirvana“, il Tao, l’Assoluto o quello che preferite è paragonabile alla quarta linea che attraversa le prime tre in verticale. Significa che l’Assoluto attraversa e compenetra tutti i mondi dell’essere… credo sia una immagine in grado di rendere l’idea. Nella tradizione indiana viene chiamato anche Turiya, parola perfetta in questo contesto, perchè significa proprio “quarto”. Questo Assoluto, e la sua realizzazione, quindi non è “da qualche parte”, ma è qui… ora… adesso… sempre. E’ la realtà dietro ogni altra realtà apparente del momento, lo schermo bianco del cinema su cui vengono proiettati tutti gli infiniti film del multiverso. Il Buddha che si pone nel nirvana non va altrove, rimane in questo mondo, ma ha realizzato la reale natura del mondo, che è l’Assoluto sul quale vengono proiettate le illusioni dei mondi, lo schermo bianco.

Anche in questo Don Stanzione ragiona tipicamente da occidentale, e quindi nel concetto di vacuità e vuoto non scorge il potenziale della forma, ma solo il deprimente vuoto nichilistico del nulla. Ma il “vuoto” del nirvana non è un vuoto nulla, ma un vuoto contenente tutte le potenzialità dell’essere in divenire. E’ paragonabile al display di un orologio digitale … anche quando è spento noi sappiamo che sul nostro orologio è presente una sfilza di “8” formati da trattini che possono illuminarsi in varie combinazioni. Questi “8” virtuali sul display nelle loro combinazioni sono in grado di dare vita a qualsiasi cifra. Ecco, il nirvana è la stessa cosa. Paragonandolo al Tao, i saggi cinesi dicevano che è come il vuoto all’interno di un vaso, o al vuoto al centro di una ruota… non è un vuoto senza utilità, perchè grazie ad esso diventano utili le cose… senza quel vuoto il bicchiere sarebbe un oggetto inutile, lo stesso vale per il vaso o per le stanze di una casa. Questo “vuoto” è come un foglio bianco. Un foglio bianco non è vuoto, ma è pieno di tutte le cose che vi possono essere scritte o disegnate. Se vi fosse già scritto qualcosa, la sua utilità cesserebbe perchè non potrebbe più essere usato per creare e far essere le altre cose… la sua determinazione in qualcosa di specifico impedirebbe l’essere di tutte le altre cose, e renderebbe relativo e limitato l’Essere nella sua forma più pura. E così come la velocità perfetta non è una velocità relativa (la quale sarà sempre superata da una velocità più alta) ma il semplice “essere già lì dove si vuole arrivare”, allo stesso modo quale può essere la forma più perfetta? Ma ovviamente è l’assenza di forma, che contiene in sè la possibilità di assumere qualsiasi forma determinata. Ecco perchè, come ha notato Stanzione, in oriente la forma più alta del divino è impersonale. In oriente il Dio personale non viene escluso come ipotesi, ma rimane comunque una forma inferiore dell’Assoluto impersonale, di cui anche Dio e le altre deità sono solo una manifestazione. L’induismo per esempio non è una religione politeista come sembra… esso è un monismo con un’anticamenra fortemente non-dualista. Più in alto di tutto vi è l’Assoluto, il “Brahman Nirguna” (l’Assoluto indeterminato) che comprende tutte le cose. Poi viene il “Brahman Saguna” o “Ishvara”, il Demiurgo, il Dio personale come concepito anche da noi occidentali. Il Divino poi si manifesta nei mondi con infinite forme, che sono le immagini classiche delle divinità induiste, tra cui spicca per importanza l’aspetto trinitario di Ishvara, la trimurti consistente in Brahma (il Creatore), Vishnu (il Conservatore) e Shiva (il necessario Distruttore, per certi versi assimilabile anche alla figura del diavolo occidentale, armato di tridente, impetuoso e impegnato a distruggere le opere dell’uomo con catastrofi, tormenti e malattie affinchè nella disperazione possa volgersi alla ricerca del significato della vita e realizzare la propria natura di risvegliato… sotto questo suo aspetto, il più antico documentato, prende il nome di Rudra, il fiammeggiante ). Questo giusto per mostrare come anche l’induismo (non esiste inoltre nella realtà una religione con questo nome. In India esistono solo le 6 darshana, che solo le 6 diverse prospettive attraverso le quali si può interpretare e relativizzare la Shruti, la Dottrina Universale di origine non-umana nella quale esistenza credono gli indiani) sia un fenomeno molto più complesso di come lo immaginano sicuramente i pontifessi: come una religione pagana di rozzi e ignoranti idolatri.

2. L’idea che il buddhismo sia una religione atea che nega Dio. L’idea che il buddhismo sia una religione “anormale”.

Il buddhismo NON è una religione. Lo si potrebbe invece descrivere come una forma di misticismo scientifico nel metodo. Che cos’ha di scientifico il buddhismo? L’approccio gnoseologico, che lo spinge a indagare la causa delle cose secondo un approccio personale. Davanti all’importanza dell’approccio personale e diretto, tutto il resto perde di importanza, compresi gli insegnamenti del Buddha. Una delle massime cardine del buddhismo è “Se incontri un Buddha, uccidilo!” (in senso simbolico). Nessun’altra religione si è mai spinta a tanto, arrivando a dire del proprio maestro o fondatore “se incontri Gesù, tiragli una padellata in testa”, “se incontri Maometto, dagli un calcio nel sedere”. Ogni religione ha sempre invitato all’obbedienza negli insegnamenti e alla riverenza più totale nei confronti del proprio maestro e fondatore. Il buddhismo si pone invece come una scienza. In ambito scientifico gli scienziati non vengono venerati e non si crede alle loro parole soltanto perchè sono loro a dirlo. Noi non abbiamo modo di sapere se quello che diceva Buddha fosse vero e giusto, ma sappiamo per certo che egli di persona spronava continuamente le persone a non credergli, ma a cercare di sperimentare in prima persona. L’Assoluto può solo essere sperimentato di persona, non può essere insegnato o descritto a parole. Le parole non saranno mai in grado di descriverlo, se non soltanto in uno dei suoi mille singoli aspetti dettati dalla prospettiva di chi lo vive.

Questo totale aspetto scientifico del pensiero di Siddharta Gautama, spinse il Buddha ad occuparsi solo di ciò che era sicuro di comprendere e di saper spiegare. Il buddhista di fronte a ciò che non capisce o conosce applica una scientifica sospensione di giudizio. Egli non si pronuncia in merito a temi come l’esistenza di Dio, perchè non ne conosce la risposta. Inoltre sono argomenti del tutto superflui all’obiettivo del conseguimento dell’illuminazione. In tal proposito si racconta che il Buddha, interrogato più volte su questioni cosmologiche, fornisse ogni volta risposte diverse. Al credente negava l’esistenza di qualsiasi realtà divina… al non credente invece svelava l’esistenza del divino. Interrogato su questa sua contraddittorietà, si tramanda che il Buddha rispondesse di fare di proposito ciò. Il suo intento era far sorgere il dubbio nel postulante, demolire le sue credenze e certezze, qualunque esse fossero. Lo scopo di ciò era spingere il postulante a cercare da solo le proprie risposte, nella ricerca personale dell’illuminazione. Le teorie cosmologiche erano considerate un veleno da parte del Buddha, perchè spingevano la gente ad un passivo ed inutile fantasticare ad occhi aperti. Per Buddha invece o la realtà veniva sperimentata di persona, o qualsiasi fantasia su di essa sarebbe stata solo fumo negli occhi. Il Buddha quindi si astenne di proposito dal descrivere qualcosa che doveva essere sperimentato, vissuto, e non fantasticato ad occhi aperti, cosa che poi avrebbe dato luogo a tutte le tipiche seghe mentali cosmologiche e teologiche che sono tipiche delle tradizionali religioni, cosa che il Buddha poteva osservare nella religione del suo tempo, degenerata in un campo di battaglia di futili discussioni filosofiche e diattribe teologiche. Il pensiero che Buddha cercava di trasmettere ai suoi discepoli invece era: “cercate prima di tutto l’illuminazione invece delle risposte: le risposte arriveranno con il risveglio”. Per dirla con le parole di Gesù, era come se il concetto che cercasse di dire fosse: “cercate prima il Regno che è IN voi… il resto vi sarà dato in più, senza che voi dobbiate preoccuparvene prima”. Questo non è ateismo o nichilismo… questo è semplice buon senso scientifico.

3. L’idea secondo il quale nel buddhismo ci si salva solo per virtù se si seguono le leggi del Buddha.

Personalmente ritrovo trattata simile idea solo da Don Marcello Stanzione. Prima di tutto il Buddha non ha mai insegnato leggi, al massimo ha insegnato un proprio metodo. Non vi è salvezza alcuna nell’adorazione del Buddha e nel fatto di seguire il suo insegnamento. E’ tutta una questione di impegno e inclinazione personale. Il metodo non garantisce il risultato assicurato al 100% . A nessuno che prenda i voti del buddhismo viene garantito il “nirvana a fine corso”. Nè il buddhismo crede che la propria via o i propri metodi siano l’unica via possibile al risveglio. Questo è un altro aspetto che può apparire incomprensibile all’occidentale : nel buddhismo, come anche nell’induismo e nelle altre religioni orientali, la “salvezza” non è garantita e non è una esclusiva personale. Un buddhista non ritiene che la propria via sia l’unica che conduce all’illuminazione e alla “salvezza” rispetto a questa o a quell’altra religione. Al massimo un buddhista può ritenere che la propria via sia migliore di un’altra. Ma anche questo è discutibile, perchè molti buddhisti e seguaci di religioni orientali sono perfettamente consapevoli del fatto che ogni individuo è diverso dagli altri, e la via che può essere giusta per uno può essere meno idonea per un altro. In oriente manca l’idea occidentale univoca e assolutistica che possa esserci una sola via, una sola verità, una sola religione che salva tutti. Non vi è quindi il tal maestro o la tal religione da seguire per andare in “paradiso”, mentre tutte le altre sono soltanto “eresie” sbagliate che conducono alla dannazione e all’errore. Ancora, secondo il modo di pensare orientale, non è affatto detto che una persona abbia bisogno di appartenere ad una religione o scuola di pensiero di un maestro per arrivare all’illuminazione. In oriente le religioni originali di quei luoghi non si distinguono tra loro per credenze (le cui differenze esistono, ma vengono generalmente percepite come differenze di prospettiva dell’osservatore rispetto alla Realtà Unica) quanto piuttosto per il metodo. E’ un discorso simile a quello delle numerose arti marziali: la realtà rimane sempre quella del combattimento, ma cambia la prospettiva circa il metodo considerato migliore… chi ama l’eleganza potrebbe trovarsi a suo agio con il kung fu… chi preferisce un approccio più diretto e meno “coreografico” potrebbe trovarsi più a proprio agio con il karate, e così via… un simile analogo discorso può essere fatto per le “dottrine del risveglio”. Ovviamente un uomo che arrivi con le proprie forze e per proprio conto al risveglio è considerato molto più raro di chi vi arriva con l’aiuto di una comunità o di un maestro che abbia già realizzato questa realtà e possa offrire un consiglio. E’ considerato ancora più raro che un uomo possa arrivare a concepire l’idea stessa della “via” senza aver mai sentito la predicazione di qualcun altro, ma è considerato come una possibilità assolutamente plausibile e naturale. Un occidentale potrebbe arrivare a concepire e a realizzare l’idea dell’illuminazione anche senz aver mai sentito parlare di simili idee. Un uomo può diventare un Buddha anche senza aver mai sentito parlare in tutta la sua vita di religioni orientali o di misticismi occidentali. Ovviamente è solitamente più raro, ma questa è l’apertura mentale dell’oriente e in particolar modo del buddhismo. Ovviamente rimanendo in argomento puramente dottrinale e spirituale. Non abbiamo dubbi sul fatto che anche in oriente vi siano “buddhisti” intolleranti o convinti che solo la propria scuola di pensiero è la migliore. Allo stesso modo ci come qui da noi ci sono molti “cristiani” che hanno praticato l’amore cristiano con le guerre e le bombe.

Ad ogni modo spero di avere illustrato un genere di spiritualità che è culturalmente molto distante dal nostro, e che noi occidentali non possiamo comprendere su due piedi attraverso il filtro del modo di pensare occidentale e delle nostre religioni occidentali, diverse nella forma e nel metodo. L’idea di Stanzione di fare un paragone tra le due religioni, per stabilire quale delle due sia migliore, mi sembra il classico discorso adolescenziale dei giovani maschietti impegnati con un righello a misurare “chi ce l’ha più lungo”… E’ una prospettiva davvero molto infantile e limitante.

In proposito mi sento di commentare la frase di Stanzione nella quale suppongo volesse fare il paragone tra Cristo, morto a 33 anni in seguito a persecuzione e crocifissione, e il Buddha, morto serenamente in vecchiaia. Sembra, o comunque prevedo, che l’intenzione di Stanzione fosse quella di una specie di “ecco, vedete? il nostro messia è morto da vero profeta, sacrificando la sua vita, mentre quel sedicente santone è morto serenamente, attorniato dai suoi discepoli creduloni”. Premetto che è una concezione solo tipicamente cristiana quella di credere che solo la morte e la persecuzione rendano infine grande un uomo. Anche osservando la cronaca, il mondo delle religioni e quello della musica e dell’arte, sembra che un grande profeta, cantante o artista in occidente lo si possa considerare davvero grande solo se è morto, possibilmente se morto in modo violento, da giovane, dopo una lunga persecuzione. Fa parte del macabro immaginario “emo-cristiano” (credo di aver trovato una nuova definizione per i bigotti pontifessi…. emo-cristiani) secondo il quale più ti perseguitano, più ti odiano e ti tirano mele marce, e più sei davvero grande e santo, un vero “unto del Signore”. La cattiveria con il quale il mondo perseguita un grande uomo non è indice della grandezza di questo uomo, ma solo il metro della “piccolezza” della gente del suo tempo e del suo contesto geografico-culturale del momento. Un uomo è grande in base alla grandezza dei suoi pensieri e del suo cuore. Non c’è bisogno di altro metro per riconoscerne la grandezza. Un mondo civile saprà accogliere e riconoscere questa grandezza, nella peggiore delle ipotesi le rimarrà indifferente. Un mondo che accoglie a sassate o crocifiggendo una grande anima, non testimonia la grandezza di quell’anima, che è già grande di suo senza bisogno di ulteriori conferme, ma testimonia solo la propria bassezza e meschinità. Se Gesù fosse nato in India ai tempi del Buddha, o direttamente a Roma o nell’antica Grecia, probabilmente non sarebbe stato ammazzato per le sue innocue parole. il Buddha ebbe la fortuna di nascere in un India di un periodo in cui le idee venivano discusse e “cambattute” filosoficamente. Il Buddha potè permettersi il lusso di criticare la società del suo tempo e di potere negare la certezza dell’esistenza di Dio e della validità dei dogmi. Se la cavò solo con qualche sporadico tentativo di avvelenamento da parte dei meno tolleranti. Se Gesù avesse fatto altrettanto, negando i dogmi e deridendo le tradizioni, non lo avrebbero solo crocifisso… lo avrebbero crocifisso, preso a sassate sulla croce, tolto dalla croce e fatto in pezzi così piccoli da poterli disperdere in tutto il medioriente. La stessa cosa sarebbe accaduta se Siddharta Gautama avesse avuto la sfortuna di nascere in quella maledetta “terra santa” (da quando esiste la “terra santa”, non fa altro che portare male… meno male che è “santa”), non se la sarebbe cavata con una semplice crocifissione. Per la foga di farlo a pezzi forse qualche pezzo di “Buddha” sarebbe schizzato fino ai poli nord e sud. Un popolo che fa a pezzi un grande uomo non dimostra la grandezza di quell’uomo (che rimane grande di suo), ma solo quando sia, ovviamente solo a livello statistico e di maggioranza, ignorante e animale quel popolo, ovviamente in quel determinato momento storico e geografico (la storia insegna che i popoli non rimangono mai gli stessi nei secoli… cambiano, crescono, maturano o degenerano). I primi vangeli (vedasi Tommaso) erano concentrati solo sulla parola del Maestro… l’abitudine di concentrarsi solo sull’evento sanguinario subentrò in seguito, diventando il gusto macabro che contraddistingue gli emo-cristiani di oggi, capaci di vedere e riconoscere un profeta o un grande uomo solo se lo inchiodano ad una croce o lo torturano fino alla morte.

Gianfranco Giampietro.

« Il brāhmana Dona vide il Buddha seduto sotto un albero e fu tanto colpito dall’aura consapevole e serena che emanava, nonché dallo splendore del suo aspetto, che gli chiese:
– Sei per caso un dio?
– No, brāhmana, non sono un dio.
– Allora sei un angelo?
– No davvero, brāhmana.
– Allora sei uno spirito?
– No, non sono uno spirito.
– Allora sei un essere umano?
– No, brahmana, io non sono un essere umano […]
– […] E allora, che cosa sei? […]
– […] Io sono sveglio. »

5 pensieri su “Buddhismo e immaginario occidentale

  1. admin

    Aggiungo una annotazione… L’articolo compare sul sito Pontifesso il giorno 30. Ma apparentemente non è “nuovo”. Nel senso che è comparso il giorno prima su un sito diverso, sempre a firma di Stanzione.

    http://www.dentrosalerno.it/web/2010/11/29/buddhismo-e-cristianesimo/

    Misteri del geniale Webmaster e dei suoi collaboratori/direttori spirituali… 🙂

    Interessante notare che Stanzione appare in questa pagina: riveste dunque un ruolo non secondario nella struttura:

    http://www.dentrosalerno.it/web/chi-siamo/

    Curiosamente non hanno scelto di affidare la gestione del sito web al geniale Maldestro! 🙂

    Rispondi
  2. FSMosconi

    MI sa costoro confondono il Nirvana col Velo di Maya, concetto che (ma guarda un po’) hanno in forma “velata” anche loro…

    “Ogni religione ha sempre invitato all’obbedienza negli insegnamenti e alla riverenza più totale nei confronti del proprio maestro e fondatore”

    Aggiungerei Iussu Zarathustra: è stato lui il primo ad essere strumentalizzato a quasto fine dai re della sua epoca, gli altri (a cui devono molto in teologia e in escatologia) l’hanno solo imitato se non spudoratamente copiato alla bell’e meglio come il cristianesimo…

    ” chi ama l’eleganza potrebbe trovarsi a suo agio con il kung fu… chi preferisce un approccio più diretto e meno “coreografico” potrebbe trovarsi più a proprio agio con il karate, e così via…”

    So che non c’entra granchè, ma…. io faccio karate (Wado Ryu)! E si, hai proprio ragione: è di quanto più diretto e filosofico abbia trovato… 😉

    “I primi vangeli (vedasi Tommaso) erano concentrati solo sulla parola del Maestro… l’abitudine di concentrarsi solo sull’evento sanguinario subentrò in seguito, diventando il gusto macabro che contraddistingue gli emo-cristiani di oggi, capaci di vedere e riconoscere un profeta o un grande uomo solo se lo inchiodano ad una croce o lo torturano fino alla morte.”

    Quoto: in Marco ad esempio mancava la risurrezione, e le prime versioni raccontate oralmente (da Esseni, a quanto ci dice Eusebio) erano di sicuro solo delle raccolte di massime, a cui sicuramente è stato aggiunto un mito-clichè astronomico-astrologico del giusto perseguitato (di esempi ce ne sono: da Zeus a Gesar…) correlato di teologa mazdaisteggiante…

    Rispondi
    1. FSMosconi

      “Aggiungerei Iussu Zarathustra”

      Pardòn: su imitazione dell’Avesta: Zoroastro ha scritto probabilmente solo alcuni versi del Ghata… 😉

      Rispondi

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